(di Raffaele Iula | dal “GdN” n. 22 di novembre 2013, pp. 36-41) | “Cosa, in questi giorni, non avete osato o violato?” (Tacito, “Annales”, I, 42). Con queste parole un uomo, un soldato, si avviò a costruire il suo mito. Una storia dove le voci e le leggende hanno contribuito a rendere la sua figura particolarmente pericolosa per il potere centrale. Tanto più se il suo celebre operato sulla scena della storia di Roma ebbe inizio proprio tra i legionari. Dopo la morte del “princeps” Ottaviano Augusto, nel mese di settembre dell’anno 14 d.C., Tiberio divenne il nuovo padrone di Roma. La sua nomina, però, accompagnata dal vuoto e dall’incertezza politica che Augusto aveva lasciato con la sua morte, generarono quella che si può definire una mini-crisi dai presunti effetti catastrofici: prima in Pannonia e poi in Germania, le legioni di stanza rispettivamente lungo il Danubio e lungo il Reno dettero vita ad uno spaventoso fenomeno di ammutinamento.
Il nuovo imperatore, una personalità conservatrice, di vecchio stampo, a cui stavano a cuore gli interessi di quella “Res Publica” che egli stesso si accorgerà essere terminata da tempo, poteva contare su due soli uomini a lui fedeli: il proprio figlio, Druso II, e suo nipote, Germanico, figlio di suo fratello Druso I. Ma perché si erano propagate queste rivolte? Cosa chiedevano i legionari che il novello “princeps”, un ex comandante, un uomo d’arme, non poteva loro fornire in quel periodo così instabile, sia dal punto di vista della politica interna che estera? Il panorama che si presentò agli occhi dei due generali fu sempre lo stesso: soldati che si erano rifiutati di obbedire ai propri superiori, centurioni ridotti allo stremo, alcuni addirittura uccisi, lamentele riguardo la scarsità della loro paga e un notevole ritardo nel riconoscimento dei tempi di congedo.
A sinistra, busto marmoreo di Tiberio conservato presso il Museo Archeologico Nazionale di Napoli; a destra, riproduzione di un ritratto marmoreo di Tiberio, olio su tela eseguito dall’autore
Fu il “modus operandi” che fece la differenza tra i due familiari di Tiberio: Druso ottenne la fedeltà delle legioni e il ritorno all’ordine in modo autoritario, sbrigativo e quasi brutale, non disdegnando di far scomparire dalla scena i sobillatori per scoraggiare i restanti rivoltosi. Diversamente, invece, andarono le cose in Germania: le legioni che si erano ammutinate erano ben otto (nella Germania Superiore, agli ordini di Caio Silio: II Augusta, XIII Gemina, XIV Gemina, XVI Gallica; nella Germania Inferiore, sotto A. Cecina Severo: I Germanica, V Alauda, XX Valeria, XXI Rapax) e il panico che si era diffuso nella classe dirigente romana era dovuto proprio al ritiro delle legioni che difendevano il “limes” renano, ora esposto a possibili attacchi da parte delle tribù germaniche che avevano dimostrato la loro ferocia già anni addietro con la famosa disfatta di Varo nella selva di Teutoburgo.
La difficoltà della situazione si concretizzò per tutta la durata dell’intervento di Germanico: riconosciuto Tiberio come legittimo Imperatore di Roma, il Governatore della Gallia Belgica portò dalla sua parte anche tutti gli altri centri galli in cui amministrava la giustizia per persuadere con la parola i soldati ammutinati della sicurezza e della stabilità della nuova autorità statale nella persona di Tiberio stesso. Ma la sua arte oratoria, ciò che Druso II sfiorò solo marginalmente in Pannonia, la porta dell’Italia, non ottenne i risultati sperati: alla fine, Germanico e il suo Stato Maggiore furono costretti a cedere alle richieste dei militi per farli rientrare nei ranghi. In questo modo furono congedati tutti coloro che avevano prestato venti anni di servizio sotto le Aquile; tutti quelli che potevano vantare sedici anni di servizio erano esonerati dalle esercitazioni e da ogni genere di lavoro pesante. I donativi promessi da Augusto nel suo testamento furono versati da Germanico soprattutto attingendo alle sue risorse private. Nonostante il grande divario tra i due – Germanico fu sempre osannato per i suoi modi di fare e di accattivarsi il favore del popolo e dei soldati – l’intransigenza di Druso e l’accondiscendenza di Germanico portarono ad una sola, positiva risoluzione della faccenda: la pace e la fedeltà del più potente braccio armato della storia.
LIVIA, AFFERMAZIONE DEL POTERE DI TIBERIO | In questo contesto di rinnovata pace e concordia tra potere politico e quello militare si possono inserire alcune tra le emissioni monetali più conosciute e apprezzate del principato del secondo imperatore romano. I denari e gli aurei tiberiani della zecca di Lugdunum vengono annoverati tra le primissime coniazioni di questo sovrano. Nonostante Tiberio abbia regnato per tanti anni, fece coniare ben poche monete attraverso cui trasmettere un proprio messaggio propagandistico. E in questa ristretta cerchia si ascrivono questi esemplari, non a caso coniati a Lugdunum, zecca utilizzata fin dalla sua apertura per comunicare la legittimità del potere imperiale attraverso iconografie e legende ben definite.
E’ noto di come Tiberio preferisse continuare a produrre monete con schemi mutuati dalle tipologie del predecessore Augusto, molto probabilmente per creare un immaginario ponte per collegare il suo Principato nascente a quello dorato e indimenticabile di colui che ormai era asceso all’Olimpo con gli altri dèi. Questo legame si evince anche dai nominali su rappresentati che rifornivano in particolar modo le casse delle legioni e delle amministrazioni stanziate lungo il Reno e il Danubio.
Da un punto di vista iconografico, le diverse emissioni lugdunensi di Tiberio recano al rovescio una figura femminile assisa in trono che svolse un ruolo fondamentale per la politica di riconoscimento a favore dell’imperatore: sa madre Livia, vedova del divino Augusto e ora sacerdotessa del suo culto, nonché membro per adozione della Gens Iulia (Iulia Augusta). Il solo fatto di aver ricevuto un tale onore dal Senato, quello di amministrare i riti religiosi in favore del defunto “princeps”, denota un’importanza notevolmente accresciuta tributatale in seguito alla morte del marito. Essere figlio di Livia, quindi, significava già di per sé vedersi legittimata l’ascesa al trono imperiale.
A sinistra: Tiberio (14-37 d.C.). Denario per Lugdunum (Ag, mm 18, g 3,74). D/ TI. CAESAR DIVI AVG. F. AVGVSTVS, testa laureata di Tiberio a d. R/ PONTIF. MAXIM, figura femminile (Livia) seduta a d. regge con la d. un lungo scettro e con la s. un ramo. Ric 30; Bmc 48. Ex asta Varesi 60, 2012, 199). A destra: Tiberio (14-37 d.C.). Aureo per Lugdunum (Au, mm 21, g 7,79). D/ TI. CAESAR DIVI AVG. F. AVGVSTVS, testa laureata di Tiberio a d. R/ PONTIF. MAXIM, figura femminile (Livia) seduta a d. regge con la d. un lungo scettro e con la s. un ramo. Ric 29. Münzkabinett, Staatliche Museen zu Berlin
Tiberio, in rispetto alla sua proverbiale moderazione da vecchio romano, non volle mai esaltare la figura di Livia, neanche sui suoi tondelli: l’Augusta, titolo, questo, di cui si fregiarono solamente poche donne della dinastia Giulio-Claudia e che solo a partire dagli Antonini servì a indicare il ruolo di Imperatrice e consorte dell’Augusto, è rappresentata sugli esemplari lugdunensi, così come su quelli romani, nelle vesti di diverse personificazioni e tutte aderenti ad uno scopo celebrativo ben preciso. In questo caso, Livia è presente nelle vesti della Pax con un ramoscello e un lungo scettro. La scelta non è casuale: Livia come Pace, sulle monete di Lugdunum, destinate alle Province germaniche e danubiane dell’Impero, in un momento come quello degli albori del Principato di Tiberio caratterizzato dalla preoccupante rivolta legionaria, era il simbolo non solo della legittimazione del potere dell’Imperatore da cui i soldati si erano ammutinati, ma anche il segno della ritrovata stabilità e, appunto, della pace.
La tipologia di Livia in trono sui nominali in oro e in argento della medesima zecca era, però, stata pensata per le coniazioni di Augusto negli anni 13 e 14 d.C. Analizzando stilisticamente gli ultimi esemplari del periodo augusteo ed i primi di quello tiberiano si nota subito come la resa del trono su cui siede Livia è lineare e piuttosto schematica. Questo elemento comune ha fatto pensare che, intanto che gli incisori approntassero nuovi conii di rovescio per Tiberio che presentassero sua madre nelle vesti della Pace – un riferimento alla storia più recente – , gli addetti alla battitura delle monete nel capoluogo gallico avessero continuato ad usare lo stesso conio di rovescio augusteo che rappresentava l’Augusta nei panni di “Ceres”, per farne un simbolo di prosperità e di rettitudine morale, anche in relazione alle sue riforme sociali.
A sinistra: Augusto (27 a.C. – 14 d.C.). Denario per Lugdunum (Ag, mm 19, g 3,78). D/ CAESAR AVGVSTVS – DIVI F PATER PATRIAE, testa laureata di Augusto a d. R/ PONTIF. MAXIM, figura femminile (Livia?) seduta a d. regge con la d. un lungo scettro e con la d. un ramo (?). Ric 220. Münzkabinett, Staatliche Museen zu Berlin. A destra:statua di Livia cogli attributi della dea Cerere (o, per alcuni, Fortuna), I secolo d.C. Parigi, Museo del Louvre
Ma la figura di Livia come legittimazione del potere imperiale è raffigurata anche su assi bronzei di più facile circolazione tra le classi sociali meno abbienti. Velata, con scettro e patera. La sacerdotessa del Divino Augusto si presenta ai più bisognosi come Vesta, dea del focolare domestico, nell’accezione di punto nevralgico della “domus” del “princeps”. Livia, alla fine, sulle monete dell’ultimo Augusto e del suo figliastro Tiberio, appare nelle sembianze di varie personificazioni: nessun attributo specifico riconduce la sua figura alla Livia terrena, ma tutto, compreso il suo ieratico anonimato, contribuisce ad elevarla al di sopra delle altre identità, a renderla quasi una oltredonna in cui si racchiudono i principali poteri dell’Impero.
LIVIA, GIUSTIFICAZIONE DELL’OPERATO DI TIBERIO | Germanico: un nome, una leggenda. Tiberio non aveva mai dovuto relazionarsi con semplici uomini. E ciò non fu mai così valido come nel caso del generale che aveva sedato la rivolta renana, anche se a modo suo. Il nipote dell’imperatore era divenuto ora suo figlio adottivo: amato e celebrato in ogni parte del cosiddetto “Imperium”, Germanico fu inviato in missione diplomatica per conto dello stesso “princeps” in Oriente. Al riguardo la situazione era particolarmente delicata, al punto da richiedere “la presenza o di Tiberio Cesare Augusto o del suo secondo figlio” (Senatus Consultum de Cn. Pisone Patre, rigo 32: “desiderantium praesentiam aut ipsius Ti. Caesaris Aug. aut filiorum alterius utrius”.
Germanico, per l’appunto. Ma, durante il suo viaggio verso la Provincia di Siria – una delle più instabili assieme alla vassalla Armenia e all’irrequieta Giudea -, il giovane con la sua famiglia si fermò in Egitto. Ora, dall’epoca della sua annessione ai dominii di Roma, il Paese dei Faraoni era sempre stato, per legge, inserito nel patrimonio personale del “princeps” per vari motivi: era una regione facilmente difendibile anche con poche legioni; aveva assunto il ruolo di granaio dell’Impero, soppiantando a tutti gli effetti la prima Provincia romana, la Sicilia.
Tiberio (14 – 37 d.C.). Asse per Roma del 15-16 d.C. (Ae, mm 28, g 11,00). D/ TI CAESAR DIVI AVG F AVGVSTVS IM-P VII, testa nuda di Tiberio a d. R/ PONTIF MAXIM TRIBVN POTEST XVII, figura femminile velata (Livia) seduta a d. regge con la d. una patera e con la d. un lungo scettro. Ai lati, S | C. Ric 35. Münzkabinett, Staatliche Museen zu Berlin
Per questo Augusto, e così i suoi successori, aveva espressamente vietato che senatori ed equestri risiedessero in Egitto: poteva diventare una base sicura per un tentativo di usurpazione da parte di un servitore un po’ troppo sicuro di sé e ambizioso. Agrippina, moglie di Germanico, lo era. E la sua influenza sul marito altrettanto grande, poiché vedeva in lui l’unico mezzo per partecipare attivamente alla vita politica del tempo. L’episodio, quindi, non poteva essere ignorato: lo stesso Tiberio scrisse un’epistola di rimprovero al giovane e intraprendente generale.
Nonostante ciò, a Roma arrivarono rapporti preoccupanti: Germanico, in barba agli avvertimenti del suo patrigno, effettuava generose distribuzioni di grano alla popolazione egiziana colpita da una forte carestia. La generosità del comandante romano, però, mise a rischio le scorte alimentari destinate a Roma, una delle città più densamente abitate di tutto l’Impero. L’Egitto, riconoscente, lo sommerse di titoli di stampo ellenizzante, come “salvatore” e “benefattore”, e l’affetto nei suoi confronti si fece smisurato, tanto che lo stesso Germanico dovette emettere un editto per frenare tutto questo entusiasmo verso di lui. Aveva paura di compromettersi agli occhi di Tiberio? Nella sua mente balenava davvero l’idea di scalzare suo padre adottivo ed instaurare, grazie alle parentele di sua moglie e su suo diretto consiglio, una monarchia di stampo orientale? Il mondo politico romano era diviso, all’epoca, tra i sostenitori del regime accentrato della sola Gens Iulia e i più conservatori filo-repubblicani della Gens Claudia. I primi, volevano soppiantare Tiberio proprio riconoscendo come capo Germanico e sua moglie Agrippina, mentre i secondi, apprezzando la sua “pazienza e la moderazione” (ibid., rigo 17: “cuius aequitatem et patientiam”) vedevano in Tiberio l’unico valido esponente per reggere la loro Res Publica. Fatto sta che Germanico con Agrippina ripeté un secondo grosso errore nella sua breve ma intensa parabola politica: risiedere, ad Antiochia, nel palazzo appartenuto ai sovrani seleucidi. Delle udienze che vi si tenevano al suo interno non pervenivano rapporti regolari al Senato, come, in realtà, avrebbe dovuto fare. Sicuro, quindi, del suo favoloso ascendente su ogni popolazione del Mediterraneo e non solo, Germanico si avviò a sfidare apertamente il collaboratore più fedele di Tiberio: Cneo Calpurnio Pisone, un uomo tutto d’un pezzo, delle stesse ideologie politiche del Princeps, nonché nominato legato della Provincia da Tiberio in persona. Persino Agrippina e Plancina, moglie, quest’ultima, di Pisone, si odiavano, in quanto vedevano l’una nell’altra un ostacolo all’adempimento dei propri progetti. Germanico, a quel punto, intimò a Pisone di abbandonare la sua carica per permettergli di operare in tutta libertà.
Conveniva fidarsi del carismatico generale? Forse sia Tiberio che Pisone conoscevano la medesima risposta: Germanico non aveva i poteri per farlo, dato che entrambi godevano degli stessi privilegi e agli occhi dell’Imperatore ricoprivano lo stesso ruolo. Pisone additò Germanico come un trasgressore e lo denunciò all’Imperatore. Il giovane, da parte sua, fece notare come Pisone si rifiutasse di aiutarlo nella sua missione, facendo un torto a Tiberio e allo Stato stesso. In quegli anni, quando il potere era conteso tra i due, Pisone assunse l’iniziativa di dichiarare guerra ai Parti, come gli era stato ordinato da Tiberio, e di contrastare Vonone I, ex re di Partia e di Armenia, che fuggì di prigione, ma morì poco dopo ucciso dai suoi stessi seguaci, forse corrotti dagli uomini di Pisone. Alla morte di Germanico, avvenuta nel 19 d.C. nella provincia per una strana malattia, tutte le azioni del legato di Siria vennero capovolte e usate a suo discapito durante il processo che ne seguì. Pisone, infatti, fu accusato, tra le altre cose, di aver avvelenato Germanico, capo d’accusa a cui Tiberio non darà mai credito per inconsistenza di prove a suo carico.
Augusto divinizzato (22-30 d.C.). Asse per Roma (Ae, mm 30, g 10,21). D/ DIVVS AVGVSTVS PATER, testa radiata di Augusto a s. R/ Altare con porte chiuse. Ai lati, S | C ed in esergo PROVIDENT. Ric 81. Münzkabinett, Staatliche Museen zu Berlin
L’atto culminante di Pisone in Siria fu una rappresaglia armata contro il successore che gli amici di Germanico avevano illegalmente lasciato al suo posto dopo la morte del condottiero. Si venne a creare, così, una specie di guerra civile che, negli atti del processo contro di lui, verrà talmente enfatizzata da sembrare di proporzioni inaudite. I legionari si divisero in due fazioni, “alcuni detti Pisoniani, altri Cesariani” (ibid., righi 55-56: “quo facto milites alios Pisonianos, alios Caesarianos”). Come è facile intuire, i secondi parteggiavano per il successore di Germanico e tentavano di far valere i diritti del nuovo legato, anche se Pisone non era stato ancora destituito.
Dopo i funerali solenni che furono tributati alla memoria di Germanico, durante i quali Tiberio e sua madre Livia non uscirono di casa per il rito – non per mancanza di rispetto al defunto l’Imperatore mantenne lo stesso contegno mostrato alla morte del fratello, ma per rimanere fedele a quella fermezza tipica del vecchio repubblicano che gli impediva di manifestare i propri sentimenti in pubblico – ebbe inizio il processo contro Cneo Pisone. Nessuno volle occuparsi della sua difesa. Tutte le menti e tutti i cuori erano rivolti a Germanico. Eccetto Tiberio. Egli temeva Germanico, sapeva che voleva privarlo del suo più fedele collaboratore e c’era riuscito in grande stile, ottenendo anche una morte da salvatore della Patria. Tiberio sapeva che Germanico non era stato avvelenato: solo la propaganda dei Giulii di Agrippina a lui ostile, avrebbe potuto diffondere una tale diceria. E perché non farla pronunciare addirittura dallo stesso Germanico in punto di morte, rendendo la costruzione incredibilmente credibile? Tiberio, quindi, da perfetto giurista, distinse i reati per cui era davvero imputabile Pisone da quelli per cui non poteva esserlo. Nel suo discorso, però, non si sbilanciò a favore dell’accusato: “si udivano le grida del popolo dalla corte che minacciava di far giustizia sommaria se Pisone fosse stato assolto” (Storoni Mazzolani L. 2001, “Tiberio o la spirale del potere”, Milano, p. 185).
Tiberio era colle spalle al muro e Pisone spacciato. Per avere resistito con le armi al successore di Germanico in Siria e per varie appropriazioni indebite condotte in Hispania anni prima, l’ex legato e amico di Tiberio si suicidò dopo sole due udienze. La sentenza del Senato, promulgata dopo la sua morte, poiché il processo andò comunque avanti per volere sia del Senato stesso che dell’Imperatore, fu molto dura: “se […] qualcuno della sua famiglia o qualcheduno dei parenti […] fosse morto […] tra le varie immagini, che sono solite celebrare i funerali, non fosse portata quella di Cn. Pisone […]; inoltre il nome di Pisone fu tolto dall’iscrizione della statua di Cesare Germanico, la quale i sacerdoti di Augusto avevano collocato per lui nel Campo presso l’Altare della Provvidenza” (“Senatus Consultum de Cn. Pisone Patre”). Notizie in merito a questo Altare ci vengono fornite da un asse coniato sotto Tiberio in onore del divo Augusto sul quale rovescio si può ammirare la facciata principale dell’edificio esterno che conteneva al suo interno l’altare vero e proprio. Una specie di piccola Ara Pacis a ribadire il suo ruolo di “princeps” erede del divino Ottaviano. I beni di Pisone furono confiscati solo per essere ridistribuiti tra i figli e la moglie, Plancina, non subì alcuna pena grazie all’intervento della madre di Tiberio che la prese sotto la sua protezione. In quegli anni, quindi, tra il 20 e il 21 d.C., data della redazione del “Senatus Consultum” riguardo a Cn. Pisone, si concluse una delle pagine più intricate del principato di Tiberio. I risultati del processo furono per lui devastanti: fu proprio questo episodio a debilitare irrimediabilmente la figura del “princeps”, facendo passare alla storia come un tiranno dispotico e crudele un giurista e un oratore accorto e riflessivo.
In nome di Livia, moglie di Augusto. Dupondio per Roma del 21-22 d.C. (Ae, mm 29, g 13,90). D/ IVSTITIA, busto diademato e drappeggiato di Livia come Giustizia a d. R/ TI CAESAR DIVI AVG F AVG PM TR POT XXIIII intorno ad S | C nel campo. Bmc Tiberius 79; Ric Tiberius 46; Cbn Tiberius 57. Ex asta Nac 59, 2011, 896
Allo stesso periodo del “Senatus Consultum” risale un’altra importante coniazione tiberiana sul cui dritto appare il volto, artisticamente ringiovanito, di sua madre Livia nei panni della Giustizia. Altra personificazione scelta non a caso. Essa appare per la prima volta proprio sui nominali di Tiberio emessi col ritratto di Livia, a sottolineare nuovamente, soprattutto nei momenti di difficoltà, il ruolo legittimante della donna. Il suo significato è quasi certamente morale: Tiberio si rese subito conto, a distanza di qualche anno, del danno che quel processo aveva arrecato alla sua figura e, attraverso l’associazione Livia – Giustizia, del tutto nuova nel panorama numismatico imperiale, il “princeps” tentò di convincere tutte le classi sociali (l’esemplare in questione è un dupondio in bronzo) della buona riuscita dello stesso e della regolarità genuina del suo intervento giuridico, tirando in ballo la stessa Livia grazie alla quale Plancina, moglie del condannato, ebbe salva la vita.
Tiberio, allora, dette prova di un grande senso civico e patriottico: grazie al consenso di Livia, una delle donne più potenti della storia, alla moneta, come mezzo di informazione e continuità affermativa del proprio diritto e all’eroico sacrificio di Pisone, abilmente mascherato anche dal punto di vista numismatico – ultimo degli stoici caduti per la Res Publica” -, il secondo “princeps” dell’“Imperium Romanum” potè mantenere il potere, conservando il patrimonio augusteo e consolidandolo, mettendolo al sicuro da un’azione eversiva che Agrippina e il partito dei Giulii stavano forse mettendo in atto servendosi di Germanico – di cui strumentalizzarono pure la morte – per sovvertire l’ordine dello Stato da Principato in monarchia orientale, corrotta e viziata, causando, probabilmente, il ritardo della crisi che l’Impero si ritrovò ad affrontare durante il III secolo.
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
Storoni Mazzolani L. 2001, “Tiberio o la spirale del potere”, Bur.
Grant M. 2010, “Gli imperatori romani”, Newton Compton.
Nony D. 1998, “Caligola”, Salerno Editrice.
Morelli A. L. 2009, “Madri di uomini e di dèi”, Ante Quem.
Gnecchi F. 1908, “The coin types of Imperial Rome”, Spink & Son.
Eck W., Caballos A., Fernandez F. 1996, “Das Senatus Consultum de Cn. Pisone Patre”, Beck.