Memorie di un nummomane, capitolo 14

Prosegue il racconto in prima persona di un appassionato di monete, scritto da un appassionato di monete.

Dopo il tredicesimo capitolo, continua la pubblicazione con cadenza settimanale del libro di Demian Planitzer Memorie di un nummomane. Ovvero: tramonto di un collezionista di monete antiche (pp. 128, Albo Versorio edizioni, Milano 2017, € 9,50).

Capitolo quattordicesimo. Eccitazioni

Di come i pensieri di morte si avvitino da soli su sé stessi.

“…e l’aria è stranamente calda
qua a Verona, come le ondate dei miei
pensieri che sbattono mestamente
contro le mie vecchie certezze”.

Ho la mia dolce metà qua vicino che dorme, è messa di fianco,
chissà cosa sogna. Dalla porta finestra osservo, illuminato da un
lampione, l’olivo che pianta i rami nell’aria riempiendo gli occhi delle
tenebre con mille tenere foglioline che fremono. Sto così, a seguire i
riccioli ricamati sulle tende e a contemplare lontananze numismatiche
incommensurabili che sfuggono nella nebbia, mentre una soffusa
melodia medioevale si avverte flebile scomparire laggiù.
Non mi riconosco più, sono invecchiato di 20 anni, non mi sembra
mio quel viso che vedo e lo immagino senza baffi, la bocca senza
mutande rossicce, però stimo ancora i miei occhi verdi che capiscono
e si parlano con complicità, allora sorrido soddisfatto, con una strana
sensazione come quando si scorge improvvisamente per strada, dopo
anni, la propria vecchia fidanzata passeggiare allacciata stretta stretta
ad un altro che non ci assomiglia per niente.
Allora nei miei occhi posso dire che, nonostante la caccia grossa
andata male, riposi ancora fiorente il misterioso splendore, l’enigmatico
scintillio che la nummofilìa era solita lasciarmi?
Sto solamente confondendomi oppure il tunnel che ho costruito
nella siepe porta davvero da qualche parte? La nummofilìa è ancora il
mio giardino segreto dove nessuno può entrare?
Certo che non posso pretendere di prendere sonno facilmente stasera,
dopo l’eccitazione della giornata. Dopo le avventure di ventiquattro ore
che non volevano saperne di stare finalmente tutte nella clessidra. Dopo
la rovinosa caduta e l’innalzante purificazione, non posso pretendere di
levarmi in fretta il lenzuolo delle frenesie che mi avvolge il corpo, che
ora giace sbattuto e vuoto come una grossa seppia morta sulla spiaggia.
Le mie membra sono come immerse in una gelatina che mi ha lasciato
il turbine e non posso sperare che si sciolga solo perché ho percorso 500
chilometri all’indietro. La mente è ancora surriscaldata di eccitazione e
non può raffreddarsi in poche ore di blocco, lo capite?
Affaticato sono affaticato, ma vorrei avere visto voi, al posto mio.
Ma tutto questo cosa mi insegna se penso alla mia dolce metà qua al
mio fianco?
Che la mia passione per le monete antiche, a forza di pomparmi
desiderio nelle vene, è riuscita a trascinarmi nell’abisso? Mi ha
mandato in cortocircuito? Mi ha risucchiato per poi sputarmi come un
nocciolo di ciliegia che non serve più a nulla? Per quale ragione non ho
resistito a questo profumo? Perché ho creduto a questa follia? Chi si è
impadronito di me mentre contemplavo il medaglione di Teodorico re
degli Ostrogoti? Forse lo stesso re mi ha posseduto? Perché ho perso il
senno come le ragazzine davanti ad un cantante, idolo del momento?
Come se potessi con una matita descrivere il perché e poi, appena
capito, cancellarlo con la gomma-pane bianca, appena mordicchiata,
voglio dire.
Perché ho voluto assecondare la passione che invece mi aveva
divorato come un tarlo anche la mente? Perché volevo essere l’uomo
delle monete?
E quanti me stesso hanno creato i medesimi pensieri in altre menti,
alla vista delle collezioni o delle monete in vendita? Quanti non hanno
resistito alla tenera sensualità dei nummi? Quell’armonia tra arte,
storia, vita che si libra da questi pianeti del sistema numismatico?
E delle mie monete, quali sono quelle che sono state rubate da
qualcuno almeno un volta? Quali di queste hanno sentito nelle mani
che le toccavano il terrore che avverte il ladro per essere stato quasi
scoperto?
Allora chiudo gli occhi con le mie palpebre bianche e penso che per
un po’ non mi dedicherò più alle mie monete, alle loro magie, alle loro
maniglie ammaliatrici. Vincerò la mia schiavitù.
Sapete? E’ un mese che siamo nella casa nuova, calda, accogliente
e fresca di inizio, non vecchia di vite.
Mancano ancora i lampadari, tubi neri corrugati sputano lampadine
adolescenti come serpenti grosse uova dalle trasparenze allungate
che non vogliono staccarsi. Il parquet è leggero e rilancia volentieri
i piedi e i rumori con giovanile stupore ed energia. Le scale sono
lucide di marmo e i gradini nulla sanno, ancora, del tempo, delle
preoccupazioni, delle litigate, pensano solo che tutto sia radioso
e luminoso. I muri bianchi respirano ancora di malta fresca, i vetri
non hanno ancora visto nessuna stagione, sono altezzosi e sprezzanti
quando il termometro abbassa la temperatura. Le porte fanno i primi
giri sui cardini e non sanno cosa siano i cigolii o i sassolini sotto
che graffiano il pavimento. Le travi sono linde, volonterose come i
piatti che hanno accolto ancora poche portate, solo la moka è sempre
quella che bolliva il caffè durante i lavori, e guarda per questo tutti i
nuovi arrivati con una certa superiorità macchiata da chiazze marroni,
ricordo del caffè che per anni ha trasudato mulatto dalle sue vene.
Il cancello deve ancora comprendere come si fa a tracciare un solco
semicircolare, il cane è poche notti che dorme nella sua nuova cuccia.
Solo sopra di me pesa il passato delle mie monete che provengono
dagli abissi del tempo, quasi a portare sfortuna, a sfottermi perché
sono demoni immortali.
Forse per questo sono caduto.
Forse per questo il sangue è andato alla rovescia nelle mie vene.
Forse per questo sono inciampato nel filo spinato… sento ora che
il treno mi ha portato in salvo lontano, rivedo Amid all’incrocio con
le sue caldarroste, rivedo la statua del Tritone che mi aveva illuso di
custodire il mio tesoro. Rivedo le monete di Francesco Gnecchi e di
Vittorio Emanuele III, re d’Italia e d’Albania e Imperatore d’Etiopia,
e prendo a pugni la loro insaziabile brama di accumulare, di guardare,
di studiare. A 110.000 era arrivato il re e a 20.000 lo Gnecchi: pazzi.
Ma quanti collezionisti come me nascondono le case, quanti tesori
dormono sornioni nelle cassette di sicurezza delle banche?
Domani mi consolerò tirando fuori tutte le mie monete dalle loro
scatoline. Riunirò in un mucchio tutte quelle d’oro, in un altro quelle
d’argento e in un altro ancora quelle di bronzo e di rame. Basta giocare
al museo, voglio forcarle a dita aperte come un avaro del medioevo,
come con il grano che scende nella tramoggia.
L’ulivo freme ancora nell’aria serale, siamo a San Martino e l’aria è
stranamente calda qua a Verona, come le ondate dei miei pensieri che
sbattono mestamente contro le mie vecchie certezze.
Sento che il mio corpo si rilassa e vuole dormire, solo la mente
pedala ancora. Lo so ormai, però, che tra un po’ allenterà la presa,
cesserà la corsa e si fermerà sui pedali stando in equilibrio nel sonno,
come la pagina di mezzo in un libro aperto a caso sul tavolo.
Sento suonare il prefisso del sonno, avverto il profumo di cocco
mescolato ai capelli neri della mia dolce metà. Forse mi aspettava
prima, e per questo si era fatta la doccia profumata, chissà…
Le mie monete mi hanno rubato quindi la vita? Invece di donarmi
quella degli altri? Sono così diaboliche?
Vorrei sfogliare un catalogo per un po’, vorrei vedere i tre solidi di
Teodorico su internet. E pensare che li avevo quasi in mano. Leggiadri
dopo 1500 anni, nel palmo della mano di uno sconosciuto amico del
passato. La tovaglia dei ricordi sta piegandosi da sola, ancora una
volta, una volta ancora e il cassetto della tavola spalancherà la bocca
per accoglierla. La inghiotte e la luce si estingue, solo l’ora digitale del
forno non si spegne mai. Il bagliore saltella sulle scale e si fa vedere se
apro gli occhi, ma ormai è inutile, le palpebre sono pesanti e chiudono
questo sguardo che ormai ha visto troppo. Fra un po’ di anni i miei
occhi saranno ancora più esausti anche durante il giorno, quando i
capelli mi cadranno e i denti saranno sempre meno mentre le mie
monete non saranno invecchiate nemmeno di un giorno, come tanti
ritratti di Dorian Gray all’incontrario.
E allora, malefiche ridevano di me? Della mia giovinezza e dei
miei capelli biondi che sono morti per sempre? Godranno di essere
immortali, di vedermi con la pelle floscia e cadente dentro lo stesso
accappatoio che mi aveva avvolto nudo, la prima volta, da ragazzo?
Le sento sbeffeggiarmi dietro le spalle, ridere di me, una risata
sempre più fragorosa e appuntita come le spine dei rovi d’inverno.
Adesso addirittura le sento felici di disfarsi di me, pronte per
illudere altre vite, pronte per partire per altre case, per altre mani, per
altri occhi, eccitate come i cuori degli scolari la notte prima della gita
di fine anno. Fremono, sì, fremono di felicità perché morirò (o forse
speravano che mi arrestassero per il furto?) e le lascerò, loro invece
viaggeranno ancora senza di me, anzi ricordandomi con scherno e
radiosa meraviglia beffarda.
Le vedo girare le pagine dei miei diari dove ho annotato il loro
ingresso, metodicamente come un ragioniere, come l’ufficiale
d’anagrafe, come il prete quando scrive sul registro. Ma cosa fanno
ora? Tracciano degli enormi segni con il pennarello nero sulle righe
vergate da me?
Godete, godete che sto invecchiando, gioite per i miei acciacchi,
ridete quando devo inforcare gli occhiali per decifrare le legende mentre
invece prima prendevo la lente, quella piccola con l’impugnatura
d’oro.
Bastarde, sperate nella mia fine, non sapete trattenervi dal ridere
mentre mi prendete in giro? Non vedete l’ora di vedere la mia morte?
Con tutto quello a cui ho rinunciato per voi, con tutti quegli anni che
ho passato a cullarvi, a coccolarvi, a vezzeggiarvi.
Ditemi, è questa la vostra gratitudine? Ma io vi sfregio tutte e vi
fondo senza pietà in un crogiolo e poi vi verso in una forma quadrata
per farvi diventare il fermaporta del mio studio, se continuate a
sfottermi così, state bene attente.
Pensate che non abbia il coraggio di sterminarvi? Di strapparvi
all’eternità che non meritate?