Memorie di un nummomane, capitolo 10

Prosegue il racconto in prima persona di un appassionato di monete, scritto da un appassionato di monete.

Dopo il nono capitolo, continua la pubblicazione con cadenza settimanale del libro di Demian Planitzer Memorie di un nummomane. Ovvero: tramonto di un collezionista di monete antiche (pp. 128, Albo Versorio edizioni, Milano 2017, € 9,50).

Capitolo decimo. Beatitudine

Di come l’anima abbia, improvvisamente, bisogno di purificazione.
“Il fiotto di luce che alimenta il
dipinto mi investe la fronte e lo sguardo,
marchiandomi cruciforme il petto dove
brucia l’attesa”.

D’improvviso sento sorgere dentro di me una beatitudine leggera
che invade con calma tutti gli spazi, come la luce del sole che al
mattino scende dalla montagna chiamata Corno d’Aquilio dove
abito da parecchi anni ormai. Il senso di pienezza è ancora tenue ma
disperde le tovaglie cupe che avevano apparecchiato la mia mente e
dei grappoli d’uva fresca cominciano ora ad allignare nelle cittadelle
della mia coscienza liberata.
Una finestra irradia calore luminoso che divampa tra i cespugli
secchi della mia anima dove una mahonia spinosa ondeggia solitaria,
nutrita dalla pietrosa scarpata morente. Un viso mi osserva dal tavolo
di fronte, le palpebre cariche di giovinezza ed il sorriso languido di
pesca mi distillano il piombo dei pensieri che evapora morbido dalla
camicia che mi copre le braccia. Una parete di gelsomino mi rincorre
giocando e mi costringe in un angolo profumato di un muro di sassi
bianchi.
E’ chiaro che il cameriere anche se mi osserva non capisce il
mio potere. Sorrido sfinito e redento per un reato mai compiuto. E’
beatitudine, svuotamento e riempimento assieme.
Il panino finisce e la lattina è quasi vuota. Un sospiro nasce dentro di
me e si esala nell’aria romana. Prenderei una gondola per attraversare
le mie inquietudini ma preferisco rinunciare quando una forza dentro
il mio essere alza un vaso per vedere se i vermi del dubbio sono ancora
vivi nell’umidità calda.
“Devo tornare a controllare a palazzo Massimo se il medaglione c’è
ancora, posso sicuramente averlo perduto nel tragitto”.
“E se non c’è e mi riconoscono?”.
Cammino verso San Lorenzo in Lucina. Entro nel pronao fitto di
colonne che paiono condurre in una villa romana, mi infilo in chiesa e
chiudo il pesante portone. Avverto di sentire il bisogno dell’oscurità,
del buio per vedere meglio dentro i miei pensieri. Il sole mi ottenebra
la mente e i palazzi mi svuotano le fondamenta ingabbiate nei casseri.
La folla mi ruba la concentrazione sul meglio da farsi. Splende in
fondo il dipinto di Guido Reni, come un fornello acceso: un Cristo
vivo crocifisso, incastonato nella pala dell’altare maggiore. I miei
pensieri risalgono così l’infinita ringhiera di ferro dell’arte, mentre
i miei piedi zoppicano nelle ciabatte sfatte. La pelle alabastro riluce
nel meandro cavernoso come un sole che albeggia nei declivi delle
mie montagne. Mi inginocchio contemplandolo mentre i miei ricordi
del furto naufragano lontani dietro il sole di sabbia, dove i cormorani
dormono con le ali nere aperte come inchiodate a croci invisibili. Il
fiotto di luce che alimenta il dipinto mi investe la fronte e lo sguardo,
marchiandomi cruciforme il petto dove brucia l’attesa. Vorrei tirarlo
giù, quel corpo ancora vivo, da quella croce dura e sdraiarlo su di un
morbido letto.
Il medaglione che forse ho rubato rimbalza nelle scatole di ferro
che sorreggono le candele, una mano secca accende un lume che
orgoglioso sorride stupito al nuovo mondo.
Il pavimento fugge sotto i banchi allineati trafiggendo i passi dei
mortali che chiedono. Esco inghiottito dal mondo, lasciando il cuscino
della coscienza soave e ben nutrito.
Volteggio nel cielo come un uccello che ha appena abbandonato il
nido, il Tevere riluce dietro i rami gialli dei platani guardando ponte
Sant’Angelo che crede ancora in Dio.
Mi sorprende la profondità del letto del fiume, le macchine
sfrecciano segnando confini invisibili e inutili come le frequenze di
una radio. Il tempo fa così, scorre e non lascia in pace, ma non si vede
se lo si guarda, come un fiore che sboccia proprio quando smettiamo
di osservarlo, forse perché vive solo negli orologi…
Mi stringono la gola i ricordi dei tetti delle case che toccano le
montagne quando passeggio per le strade del mio paese, quando
i boschi mi inseguono pieni di indaffarati cinghiali e sospettosi
cervi maestosi. Le strade di Roma mi paiono lontane eppure ora sto
vivendo sopra di esse, sopra tesori ancora da scoprire. Mi ricordo dei
miei nummi che mi aspettano a casa e mi passo un mano tra i capelli
poco attento alle vetrine di monete antiche. Ci sono ducatoni e solidi
bizantini, ma il fulgore delle collezioni numismatiche che la mattina
ho gustato mi rovina la vista di quei comuni nummi.
Come quando ci abituiamo ad una bellezza sfolgorante,
fatichiamo ad apprezzare qualcosa che è solo carino. Roma ci
amplifica il gusto così da disprezzare poi tutto ciò che non eguaglia
la sua grandezza. Il più brutto palazzo è il più bello nelle città del
nord, così ci accorgiamo quanto distante sia la capitale del mondo
da qualsiasi altra città. Pensieri inutili questi, come le monete
lanciate nella fontana di Trevi.
Queste sensazioni mi diventano quadri che si appendono da soli
sulle pareti della mia memoria, sui corridoi dei miei giorni, mentre
tanti soppalchi pesano le mie speranze percosse dall’ultima luce
del giorno che si accomoda adesso a foderare i solai semivuoti.
Il pianto di un bambino riempie il portico della chiesa laggiù
in fondo, mentre mi chiedo se devo tornare a sacrificare ancora le
mie rotule, i miei piedi stanchi per vagabondare nel nulla tra le vie
umane del passato che si ritraggono dai morsi del presente.
Meglio era stare a casa.
Meglio era non partire.
Meglio era non sapere.
Meglio era non capire.
Si allontanano su tacchi infiniti lunghe gambe infilate in una
piacevole minigonna nera che divora una giacca trapuntata di notte.
I capelli corvini appena lavati bevono cantando lo smog delle auto
che non smettono di pensare. L’andatura è sostenuta e incurante
delle buche sul marciapiede come dei motorini parcheggiati
selvaggiamente. In quei pensieri non c’è posto per i miei, in quella
testa non c’è spazio per i miei segreti, in quegli occhi non ci sono
le meraviglie che mi piacciono. Come un nocchiere procede altera
sfidando la brezza invernale che avvolge i cornicioni come una
sciarpa che non scalda. Fra vent’anni sarà vecchia e nessuno la
desidererà più quando passeggerà nelle vie…
Sono le urla di una donna contro un marito inerme che mi distraggono
ora. Il suono arriva da una finestra schiacciata tra i paraurti di due
palazzi altissimi. Le parole sgambettano veloci abbagliando come
lame di spade. Il mondo continua a camminare ma la vita in qualche
casa va al rallentatore, basta guardarci dentro, sennò tutto sembra
scorrere in virtù di uno strano sortilegio che nessuno sa spiegare. Agli
angoli degli incroci Indiani vendono grosse castagne: dieci, cinque
euro. Il profumo di caldarroste rende piacevole l’aria piena di smog.
La polpa dei frutti occhieggia gialla dalle padelle forate che lanciano
in aria le castagne come pesci luccicanti appena pescati. Il gusto si
attacca al palato anche se le gambe avanzano oltre. Quelli i sapori
della vecchia Roma imperiale, quelle le scene vere della capitale,
non lo shopping in via Condotti, non le arrampicate sulla scalinata di
Piazza di Spagna, non il caffè duro che bevo ora in un bar.