Memorie di un nummomane, capitolo 11

Prosegue il racconto in prima persona di un appassionato di monete, scritto da un appassionato di monete.

Dopo il decimo capitolo, continua la pubblicazione con cadenza settimanale del libro di Demian Planitzer Memorie di un nummomane. Ovvero: tramonto di un collezionista di monete antiche (pp. 128, Albo Versorio edizioni, Milano 2017, € 9,50).

Capitolo undicesimo. A ritroso

Di come l’inquietudine rubi dai cassetti dell’armadio del dubbio.

“…verso la stazione i miei pensieri
si allargano, lasciano spazio ad una
sensazione positiva, ritrovo sicurezza in me,
avrei voglia di un caffè e di cantare una
canzone dei Green Day”.

Sono risoluto.
Esco dal locale e ripercorro la stessa strada dell’andata, guardando
per terra per cercare il mio medaglione, o, per lo meno, per escludere di
averlo perduto anche nel caso in cui qualcuno l’abbia invece raccolto.
Ma non sono sicuro della strada che faccio, non ricordo particolari,
negozi, bar. Non rammento insegne o scritte e ad ogni incrocio mi
pare di essermi perso, visto che ad ogni angolo ci sono quelli delle
caldarroste che fanno apparire tutti gli angoli uguali, come un
incantesimo dilatante. Cammino mentre l’oscurità si infila nei miei
pensieri nascondendomi i ricordi tra le insegne luminose che si
accendono e i lampioni che sfavillano.
Ad un tratto mi sento cogliere da una leggera agitazione, da una
crescente palpitazione che mi fa tremare la voce mentre discorro con
me stesso e mi fa vibrare le mani che spiegano una cartina plastificata
di Roma per capire dove posso trovarmi.
Il marciapiede è leggero, si alza e la fiumana di persone mi trapassa
e mi circonda come il mare uno scoglio.
L’irrequietezza aumenta quando affretto il passo. Mi pare di
riconoscere la via, infatti vedo là, a destra, il bar del Tritone, dove
nell’andata ho mangiato un panino e ho scoperto di essere stato
giocato.
Entro, saluto, vado in bagno e rifaccio gli stessi movimenti di prima
per ricostruire nella mia mente dove posso aver perso il medaglione.
Ecco il sapone come schiuma da barba, le mattonelle sudice, esco dal
bagno, vedo il cameriere che ora ha la barba leggermente cresciuta,
quello che mi aveva portato la coca cola, mi avvicino al tavolino dove
mi ero seduto, cercando di essere il più naturale possibile.
“Ha perso qualcosa?”, mi soffia al di là del banco.
“Sì, la schedina della macchina fotografica”, rispondo inventando,
sicuro della frase.
“Hai visto per caso una memory-card?”, chiede gentilmente al
collega.
“No, non mi sono mai mosso da qua”.
Ringrazio della premura, mentre gli occhi neri con la basetta a
punta che segna il centro della guancia mi osservano ironici.
Allora esco e mi dirigo alla fontana del Tritone. Guardo la conchiglia
che tiene in alto con le mani il dio, dove zampilla l’acqua, poi osservo
le due grosse valve che accolgono il liquido trasparente “che siano
proprio là i tre solidi di Teodorico?”, mi chiedo. Possibile che abbia
lanciato quella moneta-medaglione invece dei due euro? Quei due
euro che ho trovato nel fazzoletto infatti. “Vuoi dire che sono stato
così portapenne da lanciare un gioiello inestimabile nella fontana del
Tritone?”.
Se me lo chiedo ancora mi viene da bastonare la luna. Impossibile,
me ne sarei accorto senz’altro al tatto. E’ vero, non ho guardato prima
di lanciare, ma una moneta d’oro si riconosce soprattutto al tatto. Vuoi
dire che il bagliore che ho visto non era la parte centrale dorata dei due
euro ma lo sfavillìo dell’oro?
Ecco che vedo roteare il disco e rivivo l’attimo del luccichio prima
che si anneghi nella coppa… mi pare di intravedere le fattezze di
Teodorico nel ricordo dell’immagine. Ma non è possibile. Allora sono
ancora un ladro e senza refurtiva? Ma come faccio a sapere se l’ho
rubata davvero o no, ora che suppongo che sia dentro quell’imbuto?
Allora, delle due l’una, o guardo nella conchiglia o torno al museo
per vedere se è ancora là.
E’ vero, ero un po’ agitato, forse stordito, ma certo che commettere
un simile errore: ridicolo.
Ma allora è là senz’altro, che guarda in su nell’acqua perenne? Che
ride di me? Ha ragione.
Dopo essere stata sepolta per 1400 anni, dopo essere stata per
vent’anni nella collezione Gnecchi e per altri cento nel museo
Nazionale, ecco che se la gode a fare il bagno come Anita Ekberg
quella volta nella fontana di Trevi.
Ormai mentre semino questi pensieri nel territorio dello scoramento
sono sotto la fontana del Bernini. Come faccio a salire? Ci vorrebbe
una scala, ma come si fa con tutta questa gente?
E dai balconi dei palazzi, si riesce forse a vedere dentro alle
conchiglie? No, sono troppo distanti e poi questi meandri sono fondi.
I miei pensieri volano in basso radunandosi assieme come i gabbiani
su di una discarica.
“Mi dite cosa potevo fare?”.
Giro intorno sconsolato, arrampicarsi non si può perché poi come
farei a saltare nelle conchiglie?
Io continuo a girare e decine di persone si fanno fotografare con il
monumento dietro ed il mio segreto dentro.
Ecco che telefona la mia dolce metà. Vedo il suo nome sul telefonino:
il mondo che ho lasciato mi viene a cercare anche qua.
“Sì, sono a Roma ancora. Ho il treno alle 18.09, sono in centro, tra
un po’ vado verso la stazione”. Mi gratto la testa dopo essermi tolto il
berretto di lana che ormai mi fa solo prurito.
Una ragazza bionda, forse tedesca, lancia una monetina nel grembo
candido della conchiglia, chiude gli occhi e la moneta scompare in
alto e poi si infila nell’acqua con un piccolo tonfo sordo, forse è andata
a riposarsi proprio sul mio medaglione.
Ma come diavolo ho fatto ad imbrogliarmi così?
Estraggo dalla tasca i due euro e li guardo mentre il gusto della
solitudine del fallito mi comincia a rosicchiare le tempie. “Devo
fermarmi a Roma ora?”. “Quando puliranno la fontana?”. “Cosa devo
fare?”.
Basta basta.
Decido di dirigermi in velocità verso la stazione, lontano da quel
tritone e dalla mia morte. Comincio ad odiare la numismatica che ha
finito per farmi infilare il piede in questa tagliola mortale. Nelle vie
che percorro la gente si dirada sempre più, cerco solitudine, voglio
annegarmi nel mio scoramento. Da una finestra sento la voce di una
bambina che recita “Passato remoto del verbo credere: io credei, tu
credesti, egli crebbe…”. “No”, una voce adulta maschile rimbrotta la
bambina “ io credetti, tu credesti, egli credette” di rubare i tre solidi di
Teodorico, aggiungo io a denti stretti.
Il nuovo incrocio presenta quattro statue femminili sdraiate, prendo
una discesa e sbuco in via Nazionale. “Via da Roma, via subito”, è il
mio cuore che mi suggerisce la fuga, è la mia mente che indica la via.
Qui avevo visto la ragazza con la minigonna nera, stamattina, e chissà
dove sarà in questo momento, là c’è il negozio di monete antiche,
ricordo tutto ora.
“Lasciatemi stare nummi tentatori, ne ho abbastanza di voi, vedete
cosa mi avete fatto commettere?”. “Lo vedete come mi avete ridotto?”.
A far retromarcia verso casa, a invertire le ruote del mulino per fare
andare indietro l’acqua. Voglio tornare a casa, voglio riprendermi la
calma del mio studio che mi aspetta, le mie scatoline di tre colori,
voglio fuggire da tutte queste tentazioni.
Le bancarelle lungo le vie della Stazione Termini, cariche di libri
usati e dvd porno con le natiche vigorose in copertina che escono dai
ripiani, mi osservano beffarde. Un barbone mi guarda sorridendo,
pare conoscere il mo segreto. Ho la sensazione che mi voglia mostrare
qualche accidente. Ma cosa fa? Ha in mano qualcosa, luccica una
moneta forse tra le dita sporche che sbucano dai guanti mozzati. Ha il
mio medaglione forse? Vuole ricattarmi con il mio tesoro? La barba
sporca spunta dal bavero ricciuto rossa e bianca, mentre un berrettino
di lana fa uscire ciuffi di stoppa sopra le orecchie grossolane. Questo
pancione vuole fregarmi, vedo che zoppica con le gambe avvolte da
sacchetti di plastica tenuti stretti da fili di rame plastificati, quelli che
usano gli elettricisti. Spinge ora un carrello della spesa pieno di cartoni
e borse. Mi sorride ancora. Ma cosa vuole da me quello? Si gratta la
barba e vedo una lingua rossa che umetta le labbra arrostite dal freddo.
Sporco luridone non avrai mica trovato i tre solidi di Teodorico…
Non saranno in mano tua maledetto… Mi fermo ad una bancarella per
fingere di non averlo visto. Lui si blocca e mi fa un cenno. Ma allora
il medaglione non è nella fontana del Tritone? Ma cosa vuole questo
qui?
Con l’indice della mano destra indica a scatti il palmo della sinistra
e si mette a ridere mostrando i denti gialli e neri come quelli di un
lama.
“Vuoi vedere cosa ha trovato quello…”. Sennò perché si
comporterebbe così?
“Ehi brutto luridone?”, dico fra me nauseato dalla puzza che sento
già arrivarmi sotto il naso, l’avete mai sentita voi che siete seduti
comodi a leggermi? Un odore acre, rivoltante, che preannuncia un
animale-uomo. Lui cammina veloce quasi a condurmi in un posto
previsto. “Schifoso” urlo in silenzio “dove vuoi portarmi?”. Ad un
tratto si gira sornione (si dice così?), è quasi completamente avvolto
dall’oscurità, meglio mangiato, e ammiccando mi guarda con gli occhi
cerchiati di bianco che improvvisamente si sono rianimati.
Mi avvicino con l’intenzione di prendermi quello che è mio e dargli
uno spintone. La puzza evapora da quella carogna – altro che il mito
del vagabondo di Hermann Hesse, sono tutte stupidaggine quelle là
– come da una discarica in attività. L’olezzo si espande a zaffate e
allontana ogni persona, siamo da soli sotto un vecchio pino, calpesto
gli aghi secchi e mi viene voglia di infilarglieli nella schiena proprio
dietro al collo, come si fa con la neve quando si è ragazzini.
Ora vedo il cappottone che si apre scoprendo una pancia ben nutrita,
la mano con i guanti mozzati si infila nella tasca dei pantaloni unti e ne
esce il mio orologio.
Mi guardo il polso immediatamente: non ce l’ho proprio. “Me l’hai
rubato”, penso io ad alta voce come aprendo un finestrino che mi fa
respirare aria fresca.
Il barbone ride e io non capisco.
Lui fa cenno alla cinghietta d’acciaio, o meglio, sotto alla cinghietta,
sulla fibbia, indica addirittura con il dito che vedo rilucere di giallo.
Fisso meglio mentre quello illumina il mio orologio con l’accendino.
Ma sì dai, ride perché c’è una gomma americana attaccata alla
fibbia.
Faccio come di sì col capo, come per dire “strano”, e far capire che
quella cosa non mi appartiene.
“E’ mio, mi pare”, pronuncio a caso per abbassare il prezzo della
ricompensa.
Sospetto che abbia afferrato il perché della gomma americana e
avverto che abbia intuito a che cosa potesse servire quello stratagemma,
ma era possibile? Voglio dire, cosa ne sapeva lui…
“Grazie”, esce una voce cavernosa dalla barba sporca di giallo
vicino alle labbra “Dammi cento euro”, aggiunge il fenomeno.
“Ah sì?”, rispondo “Ce n’ho cinquanta, capo”, provo con
convinzione.
Quello in un attimo se lo mette in tasca e chiude il cappotto come
fosse una vetrina.
“Dai dai!”, dico io. “Settanta”.
Annuisce con il testone e si toglie il berretto di lana che porta una
lunga riga rossa tutt’attorno.
Infila l’orologio dentro quello schifo e mi porge il berretto con
eleganza.
Estraggo l’orologio trattenendo il respiro per il fetore che ormai mi
avvolge, mi trapassa, mi avvilisce.
Una sberla mi ferma la mano.
Capisco che vuole prima il denaro.
Mi giro, rubo settanta euro dal portafoglio. Prendo l’orologio e
metto nel berretto i soldi, come in chiesa con l’elemosina. Lui conta
e si allontana.
Guardo il mio orologio, mi fa tenerezza ora, ritornato a casa dopo
quell’avventura inutile, sul quadrante ha ancora i segni di quando sono
caduto in moto anni fa… rileggo il nome della mia dolce metà inciso
sulla cassa. Con le unghie tolgo la gomma traditrice.
Ritornando verso la stazione i miei pensieri si allargano, lasciano
spazio ad una sensazione positiva, ritrovo sicurezza in me, avrei voglia
di un caffè e di cantare una canzone dei Green Day. Non capisco
perché mi invada questo strano benessere, perché mi abbia raggiunto
questo vento di allegrezza intima, una brezza piacevole che annuncia
profumi favorevoli.
Mastico una rotella di liquerizia che mi amplifica la sensazione di
dolcezza, guardo l’immensa Stazione Termini che brulica di gente che
porta a spasso meditazioni inutili.