(di Fiamma Briziarelli) | Cosa sono i codici a barre? O meglio, a cosa servono? Per non parlare poi dei QR Code che troviamo ormai da ogni parte e come collegamento a qualsiasi tipo di prodotto o di fianco a qualunque tipo di locandina? I codici a barre sono nati in epoca contemporanea (per l’esattezza, nell’ottobre del 1948) come strumenti di gestione informativa del magazzino ed hanno un prezzo pressoché nullo. In linea generale lo stesso vale per i QR Code, che oltre a dare indicazioni sulla natura del prodotto, interfacciandosi con una tipologia di tecnologia più avanzata, conducono il “curioso” a tutta una serie di informazioni collegate al prodotto o all’evento al quale si riferiscono. Letto ciò verrebbe da pensare a quanto l’uomo moderno sia evoluto e a quanto durante nei secoli abbia imparato a creare strumenti di gestione che agevolino il suo quotidiano. In realtà, tuttavia, questa tipologia di codici deriva – non sappiamo quanto in maniera consapevole – da una “rivisitazione” di qualcosa già esistente in epoca romana, le“tesserae nummulariae”.
Il primo studioso che introdusse questo termine fu Rudolf Herzog, all’inizio del XX secolo. Le “tesserae nummulariae”, proprio come un codice a barre appunto, avevano una forma abbastanza standard: erano infatti dei bastoncini di osso o di avorio con la testa arrotondata ed il corpo della forma di un parallelepipedo o simile. Erano dotate di un foro sulla testa o sulla gola (parte di congiunzione tra testa e corpo) per permettere agli addetti al controllo di cassa, a banchieri o mercanti, di fissare la tessera ad un sacchetto mediante una corda garantendo il contenuto, quindi, proprio come un vero e proprio codice a barre dei nostri tempi, racchiudeva in sé informazioni fondamentali che “dovevano viaggiare assieme al contenuto dell’involucro”, perché fosse ricostruibile la storia di quello specifico sacchetto. Infatti, sulle quattro facce delle “tesserae nummulariae” troviamo: 1) il nome dello schiavo o del liberto o di colui che aveva controllato la somma racchiusa; 2) il nome del proprietario del banco al genitivo; 3) il verbo “spectavit” con indicate la data (giorno e mese); 4) l’indicazione dell’anno suggerita dalla coppia consolare in carica.
Essendo di fatto dei piccoli oggetti e, ovviamente, “non potendo essere interrogate” tramite un lettore di codici od una moderna app, il nome del “nummularius” è sempre espresso mentre le altre indicazioni sono sporadiche, inoltre lo spazio è ristretto per cui tutte le parole sono abbreviate ad eccezione del nome del padrone. In base alle fonti letterarie ed epigrafiche romane, i “nummularii”, ovvero i cambiavalute, avevano la funzione di cambio, di prestito e si occupavano anche di affari privati; erano figure distinte dagli “argentarii”, cioè dai banchieri e cambiavalute di rango sociale e disponibilità finanziare maggiori.
Le tessere nummularie marcano quindi l’avvenuta ispezione (“spectatio”) del sacchetto contenente la somma di un determinato proprietario e garantendo così la genuinità e rispondenza del contenuto e l’assenza di monete, ad esempio, suberate. Partendo dal primo studio dell’Herzog ed arrivando ad oggi si conoscono 163 esemplari di tessere nummularie, tutte databili tra il 96 a.C. e 88 d.C. e rinvenute quasi tutte in territorio italiano.
Stando all’arco cronologico di tutte le tessere conosciute è possibile verificare la vita – relativamente breve – di questo dispositivo di controllo all’interno del sistema economico romano, andando a coprire poco meno di due secoli della storia di Roma e proprio quelli interessati dal passaggio fra la Repubblica e l’Impero. Quindi, questi oggetti, evincono con le loro caratteristiche ed il loro utilizzo la necessità di monitorare e di avere una tracciabilità delle informazioni inerenti “il contenuto del sacchetto”, in un momento storico – fine del II secolo a.C. e inizio del I secolo a.C.- in cui la monetazione che interessava le province romane crebbe notevolmente e i traffici che portavano beni di consumo e persone verso Roma e l’Italia aumentarono a dismisura dopo il periodo dei Gracchi.
Proprio come i codici a barre, dunque, aumentando i movimenti di persone e prodotti, già gli antichi romani si resero conto della necessità di poter monitorare le indicazioni di base delle monete e dei prodotti, nonché del deputato al controllo; nell’evenienza si fosse verificato qualche ammanco lungo il “passaggio di mano in mano” e quindi sia l’evoluzione del contenuto del sacchetto, che lo spostamento di luogo in luogo dello stesso. Da qui si iniziò ad avere una mescolanza notevole di monete aventi peso e valore diverso in tutto il mondo romano, ma questa è un’altra storia.