Sono monetine molto piccole, d’accordo, ma troppo spesso trascurate dai numismatici
di Roberto Diegi. La maggior parte degli studiosi è convinta che Augusto abbia avocato a sé il diritto di emettere monete in oro e argento lasciando al Senato la competenza relativamente alle monete in bronzo. Doveva trattarsi, forse, di un privilegio meramente formale più che di un diritto reale del Senato, dato che i nomi dei magistrati monetari legati al Senato, a partire dal 12 a.C., scompaiono dalle monete in oro e argento e, dal 4 a.C., anche da quelle in oricalco, bronzo o rame. Resta comunque costante la presenza della sigla SC (senatus consulto, ‘per decisione del senato’) sulle monete in bronzo come attestazione della concessione del Senato di battere moneta. La zecca di Roma era utilizzata per la coniazione delle sole monete in oricalco, bronzo o rame, mentre quella di Lugdunum (l’attuale Lione, in Francia) provvedeva all’emissione delle monete auree e argentee. Secondo la riforma augustea il denario aveva un peso teorico di 3,89 grammi, e il metallo era praticamente puro. L’oricalco (lega di rame e zinco simile all’ottone ma più pregiato del bronzo) era utilizzato per i sesterzi e il bronzo o rame per gli assi, i rari semissi e i quadranti. I pesi teorici vennero fissati a 27,28 grammi per il sesterzio, 10,90 per l’asse, 5,20 per il semisse e 1,70 per il quadrante.
A ogni buon conto, la parabola del quadrante nella monetazione romana inizia nel periodo repubblicano, intorno al 280 a.C., quando era una moneta fusa del peso di circa 82 grammi, e si conclude con il regno di Antonino Pio (138-161 d.C.), in tempi nei quali era divenuto una monetina, ovviamente coniata, del peso di circa 1,70 grammi. Il percorso di questa parabola segue l’andamento del processo di svalutazione della moneta romana e, ad esempio, intorno al 217 a.C. si incontrano i primi quadranti coniati del peso di circa 41 grammi, mentre all’inizio del I secolo a.C. i quadranti avevano un peso molto variabile, compreso fra i 2 e i 3 grammi. Questo peso rimase stabile anche nella monetazione imperiale da Augusto a Claudio, per poi scendere ulteriormente e approdare a 1,7 grammi con la riforma di Nerone, proseguendo così fino ad Antonino il Pio, con l’eccezione del periodo di Domiziano come si vedrà in seguito. I pesi di cui sopra sono solo indicativi e presentano oscillazioni, visto che la moneta di bronzo aveva valore fiduciario e non strettamente legato al peso.
A differenza delle altre monete di maggior valore, raramente sul quadrante compariva l’immagine dell’imperatore. Le sue dimensioni ridotte non permettevano infatti di realizzare ritratti adeguati e quindi si ricorreva a immagini di divinità o simboli. Alcuni tipi rimasero costanti dal periodo di Domiziano fino a quello di Antonino Pio e le singole monete sono difficilmente databili.
Al tempo di Augusto e dei suoi successori immediati i quadranti pesavano circa 3 grammi (come conferma anche Angiolo Forzoni, in La moneta nella storia). Durante la dinastia Giulio-Claudia (Tiberio, Caligola, Claudio, Nerone) il valore delle monete – e il loro peso – rimase relativamente stabile. Come è noto, Nerone introdusse nel 65 d.C. una nuova riforma monetaria che ridusse il peso dei vari nominali.
Tiberio coniò un solo quadrante, Caligola di più (ma non quanto Augusto): sono tutti praticamente uguali, di una monotonia sconcertante e differiscono, ma di poco, solo nella legenda del rovescio.
Anche Claudio coniò parecchi quadranti ma senza molta fantasia. Le tipologie sono sostanzialmente due: con il modio – il contenitore usato nell’antichità per il grano – o con la bilancia al diritto. Viene però registrata anche un’altra moneta di piccolo modulo (Cohen 98, R.I.C. 1), la cui denominazione è in dubbio, in quanto potrebbe trattarsi di un semisse o di un quadrante.
Ma con Nerone le cose cambiarono e furono prodotti quadranti più gradevoli e variati.
Dopo Nerone bisogna scorrere la successione degli imperatori arrivando fino a Vespasiano, sotto la dinastia dei Flavi (Vespasiano, Tito, Domiziano), per trovare altri quadranti, perché i tre imperatori che lo precedettero in rapida successione non coniarono questa monetina.
Tito non coniò molti quadranti, forse solo due tipi, molto simili tra loro e neppure particolarmente belli.
Ma l’ultimo dei Flavi, l’imperatore Domiziano, abrogò la riforma di Nerone, riportando le monete ai valori anteriforma.
Tra i numerosi quadranti coniati da Traiano, di particolare interesse sono quelli che la terminologia numismatica corrente definisce Coins of the mines, in quanto riportano nelle legende del rovescio riferimenti ai bacini minerari della Pannonia, della Dalmazia e della Dardania, grosso modo il territorio che va dall’attuale Ungheria meridionale fino al Kosovo. È stata avanzata l’ipotesi che queste piccole monete siano state coniate a beneficio dei minatori che lavoravano in quelle miniere, come spiccioli da utilizzare per completare le loro “buste paga” o, più probabilmente, come donativi. In ogni caso, qualunque sia stato lo scopo della loro coniazione, la loro emissione fu molto limitata e non si protrasse a lungo. Ecco due esempi di questa monetazione molto particolare.
Dopo Traiano, la coniazione di quadranti fu decisamente meno frequente, ma non cessò del tutto. Anzi, per quanto riguarda il regno di Adriano, di particolare rilievo per la numerosità dei tipi sono i quadranti Coins of the mines ai quali si è già accennato in precedenza.
Il quadrante venne emesso sporadicamente fino al tempo di Antonino Pio (138-161). L’imperatore ne coniò pochi, ma quelli giunti fino a noi sono molto interessanti. Come i predecessori, anche Antonino Pio fece coniare un quadrante per le miniere, che peraltro non si discosta – ovviamente a eccezione del nome dell’imperatore al diritto – da quelli prodotti da Adriano.
Marco Aurelio si comportò allo stesso modo. Man mano che il peso e il valore scendevano, allo stato romano conveniva sempre meno coniare quadranti.
Se le monete divisionali di bronzo o rame continuarono a essere prodotte in abbondanza, per le transazioni più minute, anche Marco Aurelio, seguendo l’esempio di Antonino Pio, non coniò più il semisse e il quadrante, dato l’esiguo potere d’acquisto che era rimasto ai più piccoli nominali in rame. A essere precisi Marco Aurelio fece coniare solo pochi e rari quadranti con l’effigie di un bambino che, nella tradizione numismatica, si suppone essere quella del figlio Annio Vero, morto a soli sette anni. Si tratta di una supposizione molto suggestiva seppur priva di riscontri certi.
Ufficialmente si fa cessare la produzione di quadranti con Antonino Pio, ma come abbiamo visto non è proprio così. La monetazione di Antonino Pio non fu certo cospicua come quella di Adriano: il semisse non fu più coniato e l’emissione di quadranti divenne decisamente sporadica e limitata. Ormai con queste monete, in particolare con il quadrante, non si poteva acquistare più niente e appariva quindi antieconomico continuarne la produzione. Detto “addio” a queste piccole monete, divenute ormai inutili, resta però la testimonianza della loro importanza nella vita quotidiana, attraverso le immagini che sono pervenute sino a noi.