Di non minore effetto scenografico è il collare dell’Ordine della Corona di Ferro, fondato da Napoleone nel 1805 poco dopo la sua incoronazione come re d’Italia e, per così dire, ereditato dagli Asburgo che gli diedero nuovi statuti nel 1816, dopo l’incoronazione di Francesco I come sovrano del Lombardo-Veneto. Si tratta in questo caso di un oggetto di interesse particolare per l’Italia, dal momento che il suo simbolo, la Corona Ferrea, era la corona dei re Longobardi ed è tuttora conservata nel Duomo di Monza. Il collare si compone di dodici corone di quercia, collegate l’una all’altra dal monogramma FP in corsivo (iniziali di “Franciscus Primus”), ciascuno a sua volta collegato alla riproduzione di una Corona Ferrea di piccole dimensioni, e di un pendaglio con le insegne dell’Ordine. A chiudere questa brevissima anteprima, presentiamo una medaglia in oro che, per epoca, soggetto e dimensioni, non è certo fra le principali, ma presenta due aspetti che si inseriscono perfettamente nel contesto della collezione. Il primo consiste nel fatto di riportare al diritto l’effigie di Francesco Giuseppe, il sovrano che dominò la scena del tramonto dell’Impero anche con le sue tragedie famigliari, l’assassinio della moglie Elisabetta – l’indimenticabile principessa Sissi di una fortunata serie cinematografica – e la tragedia di Mayerling con la morte del figlio Rodolfo, erede al trono, avvenuta in un clima che ha alimentato ogni tipo di sospetto rispetto alla versione ufficiale del suicidio. Il secondo aspetto è fornito dal rovescio, molto semplice, ma nel quale, fra due rami di alloro e di quercia, compaiono la corona di Santo Stefano e il motto imperiale di Francesco Giuseppe: “Viribus Unitis” – “Con le forze unite”, o meglio “L’unione fa la forza” – da lui scelto al momento della sua ascesa al trono, avvenuta nel 1848 a seguito degli eventi rivoluzionari di quell’anno. Esso esprimeva il programma politico del giovane Imperatore, teso a contrastare le spinte centrifughe che pervadevano l’Impero con un richiamo all’unità fra diversi, programma al quale restò fedele per i 68 anni del suo lunghissimo regno.
La catalogazione della collezione Fattovich – che sarà esitata all’asta dalla ditta Bolaffi i prossimi 10 e 11 giugno – si annuncia come un grande evento per gli appassionati e i cultori di ordini e decorazioni, cioè della faleristica – per usare un neologismo relativamente recente – che nel corso degli ultimi decenni ha perso il suo carattere ancillare per assumere un rapporto autonomo e parallelo con la numismatica. Ma non solo, l’interesse uscirà dall’ambito specialistico, necessariamente ristretto. Non esistono infatti epoca storica e ambito geografico che sollecitino la nostalgia quanto l’Austria-Ungheria di fine XIX secolo, un territorio sterminato, dal lago di Costanza alla remota Bukovina e dai contrafforti montuosi della valle dell’Elba alla costa dalmata, un coacervo di etnie e religioni le più disparate e un’amministrazione bicefala, Imperiale (per l’Austria) e Regia (per l’Ungheria), che operava utilizzando undici lingue ufficiali, tra le quali, e non poteva che essere così, anche l’italiano.
Il clima entro il quale si è consumato il tramonto di questo Impero, colto e cosmopolita, è stato oggetto di una letteratura del rimpianto, quasi un genere letterario specifico: da Musil a Stephan Zweig, allo stesso Kafka, molti scrittori hanno fatto di quel clima il filo conduttore della loro attività letteraria, spesso mascherandolo sotto una patina di sferzante ironia. Il grande cantore della finis Austriae fu però Joseph Roth. Di lui, a titolo di esempio, vogliamo ricordare una frase, messa in bocca ad un aristocratico galiziano protagonista di un suo racconto: finita la grande guerra e disintegratosi l’Impero, questo personaggio si ritrova cittadino polacco e scopre, fra tante altre cose, di aver bisogno di un passaporto per viaggiare nella Mitteleuropa. Si ritira allora a scrivere le sue memorie in Riviera e così racconta: “La mia vecchia patria, la monarchia sola era una grande casa con molte porte e molte stanze per molte specie di uomini. La casa è stata suddivisa, spaccata, frantumata. Là io non ho più nulla da cercare. Io sono abituato a vivere in una casa, non in una cabina.” Sono parole di grande attualità: nel XX secolo abbiamo sperimentato a quale livello di follia possono portarci le cabine chiuse dei fondamentalismi identitari e anche l’attuale, da questo punto di vista, non si presenta sotto i migliori auspici.