(di Roberto Ganganelli) | La figura di Napoleone è spesso stata paragonata ad un astro: apparso sui cieli d’Europa all’improvviso, per anni rifulse indisturbato e accecante e venne guardato da decine di milioni di persone con un misto di timore e di venerazione. Al tempo stesso, il suo potere si rivelò assai “terreno”, talvolta viziato da intuizioni personali non sempre felici oppure da quei legami familiari ai quali tanto teneva. Con la proclamazione del Bonaparte a imperatore dei Francesi, il Senato conferì anche ai suoi fratelli – Giuseppe, Luigi e Luciano – il titolo di altezze imperiali ed il rango di principi.
Giuseppe Bonaparte (1768-1844), in particolare, durante la campagna militare del 1805 assicurò la reggenza dell’Impero e pochi mesi più tardi venne ricompensato con i titoli di gran dignitario dell’Impero Francese e grande elettore, nonché con il Castello di Villandry acquistato per lui dallo stesso Napoleone. Il Grande Corso, tuttavia, aveva per il fratello altri progetti: gli serviva infatti un uomo di fiducia al quale affidare uno dei territori più delicati entrati nell’orbita francese: il Meridione d’Italia. Così, a partire dal 1806 Giuseppe Bonaparte governò il Regno di Napoli, ma già nel 1808 ricevette da Napoleone una lettera che lo informava di averlo prescelto come nuovo re di Spagna e gli ordinava di “passare le consegne” al cognato Gioacchino Murat (1767-1815) che, il 5 luglio, divenne il nuovo sovrano dell’Italia meridionale.
A sinistra, una delle medaglie in oro (mm 42,7) forse disegnata da Antonio Canova per il ritorno a Napoli di Murat nel 1813, dopo la campagna di Russia; a destra, ritratto di Gioacchino Murat opera di François Gérard (1770-1837) eseguito tra il 1808 e il 1810
Nella zecca di Napoli, il fratello del Bonaparte riuscì a far battere solo piastre da 120 grana in argento sul vecchio piede ponderale borbonico (933 millesimi di fino, 38 millimetri circa per un peso medio di 27,5 grammi); il Murat, invece, ad una produzione ancora di impronta tradizionale riuscì ad affiancare un’innovativa monetazione in oro, argento e rame di tipo decimale, in linea con quella prevista dai decreti di istituzione del franco germinale. Monete da 3, 5 e 10 centesimi furono così prodotte assieme agli argentei tagli da mezza, una, due e cinque lire e alle più prestigiose tipologie in oro da 40 franchi, da 20 e 40 lire, ossia marenghi e doppi marenghi. Un marengo divenuto il simbolo numismatico della rivoluzione napoleonica e dei suoi effetti sull’Italia, coniato per la prima volta nella Repubblica Subalpina al peso di 6,45 grammi d’oro 900 millesimi – sul piede, dunque, del franco germinale – dopo la storica battaglia svoltasi in Piemonte e dalla cui località anche la moneta avrebbe preso il nome. Un marengo che, anche attraverso i “napoleonidi”, si diffonde nella Penisola
Grazie a Murat, ultimo degli undici figli di una famiglia di albergatori di provincia – e per sua fortuna, marito di Carolina Bonaparte (1782-1839)! – il marengo approdò così nel Meridione d’Italia, seppur coniato in un’unica data, il 1813: al dritto si può ammirare il ritratto a sinistra del sovrano, con la folta capigliatura ricciuta che tanto lo rendeva irresistibile per le dame, il nome GIOACCHINO NAPOLEONE e la data; al rovescio il valore 20 LIRE nel campo, tra un ramo d’ulivo e uno d’alloro legati da un fiocco, e attorno REGNO DELLE DUE SICILIE. Lungo il taglio del bordo, tra stelle, il motto DIO PROTEGGE IL REGNO seguito dalla stella napoleonica. Nessun marchio di zecca o sigla dell’incisore dei conii, che tuttavia sappiamo essere stato l’artista medaglista Nicola Morghen (II metà del XVIII secolo – I metà del XIX secolo); in verità, sono noti pochissimi esemplari che, tra i rami al rovescio, riportano una piccola lettera N interpretata da alcuni come sigla della zecca napoletana, da altri come indicazione dell’autore e da alcuni studiosi, infine, come segno per indicare una “coniazione postuma”. Tali esemplari, tuttavia, non si discostano dalla tipologia base del marengo appena descritta.
A sinistra, 40 lire oro di Gioacchino Napoleone Murat coniate a Napoli nel 1813 (mm 26); a destra, le 20 lire dello stesso anno (mm 21)
Affascinante, guascone e dal forte carattere, Murat si ritagliò un posto nella storia d’Italia anche per la sua tragica fine: il 20 maggio del 1815, nei pieno dei Cento giorni, dovette infatti capitolare alle truppe borboniche che, dalla Sicilia, avevano risalito il Regno di Napoli sbaragliando le sue armate. Ceduto il trono e firmato il Trattato di Casalanza ritornò in Francia per mettersi a disposizione di Napoleone il quale, tuttavia, non lo volle al suo fianco; così tornò di nuovo in Meridione con pochi fedelissimi, per tentare di riconquistare il perduto Regno, ma venne ben presto catturato. Re Ferdinando IV di Borbone nominò allora una commissione per giudicare Gioacchino con l’ordine di applicare quel Codice penale promulgato dallo stesso Murat che prevedeva la massima pena per chi si fosse reso autore di atti rivoluzionari, concedendo al condannato appena mezz’ora per ricevere i conforti religiosi. La fucilazione ebbe luogo a Pizzo Calabro, il 13 ottobre 1815, e i cronisti riferiscono che le sue ultime parole, rivolte al plotone d’esecuzione, furono: “Risparmiate il mio volto, mirate al cuore, fuoco!”.
Scudo da 5 lire in argento del 1813 con un superbo ritratto di Murat al dritto, esaltato dal grande modulo della moneta (mm 37)
Da un “napoleonide” dal destino tragico passiamo ad un altro personaggio – stavolta femminile – che pur avendo gravitato nell’orbita più prossima al Bonaparte sopravvisse indenne al suo rovinoso declino ritagliandosi, dopo il Congresso di Vienna, addirittura un trono in Italia. Lei è Maria Luisa d’Asburgo-Lorena (1791-1847), imperatrice consorte dei Francesi dal 1810 al 1814 la quale, con notevole lungimiranza, approssimandosi l’esilio dell’Elba decise di fare le valigie e tornare “in famiglia”, alla corte di Vienna, insieme al figlio. Anche dopo Waterloo Maria Luisa confermò la propria fedeltà all’Austria e, così, nel nuovo assetto d’Europa che scaturì dai negoziati tra i membri della vincente coalizione anti bonapartista venne ricompensata con il titolo di duchessa di Parma, Piacenza e Guastalla.
Nel piccolo Stato emiliano, già retto in precedenza dai Farnese, dagli stessi Asburgo, dai Borbone e infine annesso alla Francia napoleonica, Maria Luisa divenne Maria Luigia e si fece amare come sovrana illuminata e riformatrice. Affascinante e colta, anche dopo la sua morte, il ritorno degli ultimi Borbone e l’annessione del Ducato al Regno d’Italia, rimase nell’immaginario della popolazione come una figura ideale, circondata da un’aura di magnificenza e fascino tanto che ancora oggi sulla sua tomba nella Cripta dei Cappuccini a Vienna, i Parmigiani in visita depongono violette, uno dei simboli della città.
A sinistra, “Ritratto di Maria Luigia d’Asburgo in veste di Concordia”: opera di Canova eseguita tra il 1811 e il 1814. Solo nel 1817, Maria Luigia riuscì a recuperare la scultura, rimasta a Roma nello studio dello scultore, e la sistemò nella Reggia di Colorno dove rimase fino al 1848. A destra, 40 lire oro del 1821 con ritratto di profilo di Maria Luigia (mm 26)
Se, una volta caduto in disgrazia, Maria Luigia “ripudiò” l’ingombrante consorte Napoleone, da duchessa non poté fare a meno di adottare, per le monete del proprio Stato, quel sistema decimale che proprio il Bonaparte aveva importato in Italia da Oltralpe. Tutte coniate nella zecca di Milano, le monete di Maria Luigia si distinguono per la loro elegante raffinatezza favorite in questo dalla grazia e dai delicati lineamenti della giovane duchessa ritratta su tutti i nominali in oro e in argento. E se sui 5 e 10 soldi (25 e 50 centesimi di lira) al rovescio campeggia il monogramma ML coronato, sui pezzi da una, due e cinque lire è inciso lo stemma araldico del Ducato. Stessi soggetti per le monete d’oro, le più preziose della serie parmense del XIX secolo, coniate con nominali da 20 e 40 lire (marenghi e doppi marenghi).
Lo scudo in argento da 5 lire del 1832 del Ducato di Parma, Piacenza e Guastalla con il ritratto della ex moglie di Napoleone, Maria Luigia d’Austria (mm 37)
Il marengo, in particolare, venne battuto nel 1815, poco dopo l’insediamento di Maria Luigia, e poi nel 1832; su di esso, al dritto, vi è l’iscrizione MARIA LUIGIA PRINC.[ipessa] IMP.[eriale] . ARCID.[uchessa] D’AUSTRIA; al rovescio, in un cerchio esterno al blasone, la legenda prosegue con PER LA GR.[azia] DI DIO DUCH.[essa] DI PARMA PIAC.[enza] E GUAST.[alla] e con il valore. I simboli della coppa e della melagrana, già visti sui marenghi del Regno d’Italia di pochi anni prima, campeggiano ai lati della data, mentre sul taglio è inciso il motto DIRIGE ME DOMINE. Una curiosità: le monete d’oro da 20 lire e d’argento da 5 lire del 1832 furono coniate appositamente per essere elargite alle famiglie colpite da una tremenda epidemia di colera; il metallo per la loro coniazione fu ricavato dalla fusione di una toilette in oro e argento appartenente alla duchessa, alla quale era stata donata da Napoleone in occasione della nascita del figlio nel 1811.
A sinistra, le rarissime 20 lire parmensi del 1832 8mm 21) coniate con l’oro messo a disposizione dalla duchessa a favore delle famiglie colpite dal colera. A destra, un ritratto di Maria Luigia realizzato da Giovan Battista Callegari nel 1835 circa
Gioacchino Murat e Maria Luigia di Parma: oggi sarebbero due vere e proprie star, protagonisti del jet set non solo per il loro potere ma anche per il loro fascino e i loro legami, dapprima stretti e poi bruscamente recisi, con uno degli uomini più potenti della Terra. Destini diversi e incrociati al tempo stesso, per due personaggi di grande appeal, abbastanza per ricavarne una soap; ma questa non è fiction, bensì storia, e la numismatica – come sempre – ci offre la possibilità di riviverla nel palmo della mano.