Da una relazione della Commissione municipale di Napoli datata 5 agosto 1863 (cfr. Bovi G. 1989, op. cit., p. 430) apprendiamo come ancora in quel tempo vi fosse “moltissima moneta di rame borbonica e che nessuno la portava agli Uffici destinati al cambio”. La moneta italiana di bronzo veniva infatti accettata con riluttanza dalle popolazioni e ciò non già, come da qualcuno sostenuto, per la difficoltà delle genti meridionali di adattarsi al sistema decimale italiano, quanto piuttosto perché “se si voleva cambiarla con quella in rame si doveva sopportare una perdita del 4 per cento”. Talché “si era introdotto l’uso di cambiare un grano con una moneta da cinque centesimi, contrariamente al cambio stabilito” (che sarebbe stato, ai sensi della Tariffa, pari a 4 centesimi e 2500 diecimillesimo).
In effetti, il rapporto di cambio del rame borbonico contro il bronzo italiano era sfavorevole per i portatore della prima valuta. Un grano (moneta di puro rame) aveva un peso legale di grammi 6,237, cosicché il ragguaglio a 4 centesimi e 2500 diecimillesimi (valuta di rame non puro ma in lega 960/1000) determinava quanto meno una significativa perdita sul metallo.
Malgrado le difficoltà di accettazione della nuova valuta, la strada dell’uniformità monetaria era ormai segnata e verrà sancita definitivamente dalla Legge 24 agosto 1862 n. 788 sull’unificazione del sistema monetario del Regno d’Italia. Tuttavia, l’art. 12 di detta Legge stabiliva che “il Governo provvederà con Decreto reale al ritiro e cambio di tutte le monete d’oro, d’argento, di bilione e di rame di conio italiano a sistema diverso da quello stabilito nella presente legge e farà cessare il corso legale di tutte le monete estere egualmente a sistema diverso dal nazionale che trovansi attualmente in circolazione nelle varie Provincie del Regno”.
Ciò dimostra come nonostante la disposta unificazione monetaria basata sulla lira, fosse giocoforza necessario tollerare per un periodo ancora non definito la parallela circolazione nel Regno delle monete di vecchio conio, attualmente in corso nelle antiche Province. Circolazione parallela che, come vedremo, si protrasse sorprendentemente ancora per oltre un ventennio.
Frattanto, con Regio Decreto 10 gennaio 1862, n. 419 si era esteso alla Province meridionali e siciliane il corso legale delle monete decimali in oro ed in argento di Francia e Belgio. In questo convulso scenario, va persino registrata la reviviscenza, in tutte le Province del Regno, dell’antica monetazione decimale battuta a nome di Gioacchino Napoleone durante l’occupazione francese del Regno di Napoli, introdotta dal sovrano transalpino con Legge del 19 maggio 1811 n. 975. Questa monetazione era stata posta fuori corso da Ferdinando I con Decreto 23 febbraio 1818, n. 1125 per quanto attiene alle monete auree e con Decreto 13 aprile 1818, n. 1170 per quanto riguarda quelle in argento.