DALLA MONETA DI NAPOLI ALLA LIRA: VICENDE MONETARIE IN MERIDIONE | 2

Per le Province meridionali e per la Sicilia gli atti normativi richiamati dal provvedimento sono rispettivamente i Decreti dittatoriali del 25 settembre 1860 e del 17 agosto 1860 che, come abbiamo già visto, non ammettevano la moneta aurea al corso legale; tanto è vero che, coerentemente, la tabella allegata al Decreto n. 123 non riporta alcuna specie d’oro borbonica, annoverando fra le monete in corso legale ragguagliabili alla lira, unicamente le valute in argento. La moneta d’oro decimale italiana sarà invece ammessa al corso legale in tutto il territorio del Regno solo con Legge 23 marzo 1862, n. 506. Il rapporto di cambio imposto dal Decreto n. 123 fra la moneta borbonica e la lira italiana, rispecchia quello fissato nei provvedimenti dittatoriali ovvero: un ducato è pari a 4 lire e 25 centesimi, una piastra da 12 carlini o 120 grana si cambia a 5 lire e 10 centesimi.

Solo più tardi, con Regio Decreto 6 luglio 1862 n. 703 che ordinava “il ritiramento dalla circolazione delle monete di rame di conio napolitano”, si procederà al ritiro delle valute in rame borboniche ancora in corso legale non solo nelle Province meridionali ma anche nei territori delle Marche, dove pure erano in circolazione. L’operazione di cambio prevedeva che i possessori di tali valute si recassero, dal 20 luglio al 30 settembre 1862 “nei banchi di Napoli e Bari, di Palermo e Messina, e durante il periodo stesso, a partire però da quella data fra il 20 luglio ed il 1° agosto, che sarà indicata con apposito manifesto dal Ministero delle Finanze, in tutte le Tesorerie di Circondario e presso tutte quelle altre Casse e quegli altri Uffici e Stabilimenti che verranno designati dal manifesto medesimo”. Il Decreto disponeva altresì che, “a partire dal 1° ottobre 1862 le monete di rame di cui all’art. 1 cesseranno di avere corso legale nelle Provincie meridionali e marchigiane e potranno quindi da chiunque essere rifiutate”.

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Invero, questo termine venne dal Regio Decreto 21 settembre 1862 n. 834, prorogato una prima volta al 1° novembre 1862; poi, con altro Regio Decreto (8 maggio 1864 n. 1776) si accordò un ulteriore termine perentorio, che spostò la definitiva cessazione del corso legale della moneta in rame borbonica al 3 agosto 1864. Il ragguaglio fra l’antica moneta in rame e quella italiana in bronzo era determinato dalla Tariffada una tariffa annessa al Decreto n. 703, in base alla quale il valore di mezzo tornese era parificato ad un centesimo e 0,625 diecimillesimi, mentre quello della moneta da dieci tornesi o cinque grana era equivalente a 21 centesini e 2500 diecimillesimi. Un’avvertenza riportata in calce alla “Tariffa” informava che “nel cambio o versamento delle sovraindicate specie, siano esse presentate isolatamente o in massa, le frazioni di centesimo risultanti dai computi relativi saranno valutate come un intiero se eccedenti i 5.000 diecimillesimi, diversamente saranno trascurate”.