(di Antonio Castellani) | Vittorio Emanuele III, sul trono d’Italia dal 1900 al 1946, è passato nel corso dei decenni dal soprannome di “re soldato” – per aver seguito dalla prima linea le vicende della Grande Guerra – a quello di “re vittorioso” – con la conquista delle terre irredente – fino a quello, ben meno lusinghiero di “re traditore” dopo l’abbandono della Capitale a seguito dell’8 settembre 1943. Giudizi storici a parte, un appellativo che il penultimo sovrano d’Italia ha sempre ampiamente meritato, fino ad oggi, è quello di “re numismatico”.
Attentissimo alla qualità estetica, oltre che intrinseca, della moneta metallica, Vittorio Emanuele III promuove, fin dai primi anni del suo regno un sistematico rinnovamento delle emissioni: nascono le solenni lire tipo Aquila sabauda, poi le monete in argento con la quadriga al galoppo, quindi – nel 1911 – le eleganti coniazioni destinate a celebrare il Cinquantenario del Regno. E neppure la “fascistizzazione” dello Stato, dopo la I Guerra Mondiale, riesce a far rinunciare il re al diritto esclusivo di apporre su moneta la propria effigie: mai e poi mai Mussolini comparirà in moneta, al massimo saranno le aquile imperiali a campeggiare sugli spiccioli con il ritratto del Sovrano e i fasci littori ad “ingabbiare”, su alcune coniazioni dei tardi anni Trenta, lo scudo dei Savoia. Con questo si spiega, oltre che con ragioni di propaganda, l’enorme produzione di medaglie con il ritratto del duce che – in uniforme o in abiti civili, a figura intera o a mezzo busto, di profilo e di tre quarti – si sbizzarrisce nell’accostare la propria immagine a celebrazioni militari e civili, primati aeronautici e commemorazioni di opere pubbliche, eventi sportivi e perfino attività dopolavoristiche.
L’uomo che reggerà i destini d’Italia per un ventennio, tuttavia, è ancora solo un attivista socialista di vent’anni quando, nel 1904, i dirigenti del Ministero del Tesoro e delle Finanze, venuti a conoscenza della passione di sua maestà per le belle monete, decidono di fargli un “omaggio in banconota” dando indicazione ai tecnici e stampatori di predisporre gli impianti per un nuovo biglietto di Stato da 25 lire con l’immagine del Sovrano stesso.
Le vecchie 25 lire di epoca umbertina, in verità, non erano risultate affatto gradite al pubblico: con il nuovo biglietto si spera invece – complice la figura del giovane re – di riportare alto il gradimento popolare per questo taglio. Le Officine Carte Valori Governative di Torino sono chiamate a dar vita al “più bel biglietto mai realizzato” e, in effetti, dopo aver analizzato e scartato numerosi bozzetti, la versione definiva viene prescelta e approvata per la stampa. Si punta, in particolare, sulla finezza dell’incisione e sulla morbidezza e luminosità dei colori – amalgamati con olio di noce – e tutte le prove effettuate danno ottimi risultati, anche quelle di usura, piegatura e stiramento; pertanto – con Decreto del 25 maggio 1902 – viene autorizzata l’emissione di tre milioni di esemplari dello splendido biglietto.
A stampa ultimata, quando il nuovo taglio da 25 lire è già stato immesso in circolazione, ci si accorge tuttavia di un problema imprevisto quanto irreparabile: alla piegatura, infatti, l’inchiostro delle banconote di serie si sgretola miseramente, lasciando apparire la carta sottostante e deturpando, in molti casi, l’effigie stessa di Vittorio Emanuele III. Il mistero è presto svelato: l’olio di noce usato per la produzione di serie, a differenza di quello impiegato per stampare i biglietti di prova, è scadente e rende l’inchiostratura poco elastica e piuttosto fragile. Ormai è tardi, tuttavia, per correre ai ripari: l’unica possibilità è quella di non prolungare oltre modo l’uso dei tre milioni di biglietti stampati che, tuttavia, non vengono mai ufficialmente ritirati quanto, più semplicemente, tolti di mezzo una volta incassati da parte delle banche e delle istituzioni pubbliche.
I giornali non evidenziano, nei mesi seguenti, la magra figura fatta dal Ministero e dall’Officina Carte Valori di Torino, né sappiamo come reagisce alla notizia Vittorio Emanuele III: viene da immaginare tuttavia che, da appassionato numismatico, smaltita “l’onta” di vedersi effigiato su biglietti così fragili, il re possa aver ribadito a modo suo – magari in dialetto piemontese, come era solito fare in famiglia e con i collaboratori più stretti – l’indubbia superiorità della classica moneta metallica, forte di oltre due millenni di storia, sulla “moderna e inaffidabile” moneta cartacea.