(di Leonardo Mezzaroba) | La medaglia che viene qui presentata, non solo propone una efficace combinazione di iconografia e legenda, ma colpisce l’osservatore per la notevole ricchezza compositiva, dato che offre al dritto l’immagine di un grande letterato dell’Ottocento, Giovanni Battista Niccolini, e sul rovescio una scena che ci riconduce nella Venezia dei primi decenni del XVII secolo così come fu descritta nella tragedia dello stesso Niccolini, “Antonio Foscarini”.
Fin da quando venne coniata, nella primavera del 1828, la medaglia non passò inosservata: su di essa ebbero a scrivere subito i giornali dell’epoca; poi, nel 1881, ne parlò Nicomede Bianchi nel suo “Le Medaglie del Terzo Risorgimento” (pp. 179-180); infine, molto più recentemente, altre notizie vennero aggiunte da Arnaldo Turricchia nella sua accuratissima opera su “Il Granducato di Toscana attraverso le medaglie. Dalla Restaurazione all’Unità d’Italia. Volume I (1814-1846)”, pp. 91-92. A questi testi, cui sono debitore, devono essere aggiunte le precise informazioni presenti nel primo volume dei “Ricordi della vita e delle opere di G. B. Niccolini raccolti da Atto Vannucci”, Firenze 1866, in particolare alle pp. 241-248.
Ma procediamo con ordine esaminando dapprima la medaglia. D/ Busto del Niccolini volto a sinistra con, sotto, un ramo d’alloro e uno di quercia. Questi sono riuniti, inferiormente, da una maschera con, più in basso, un pugnale, entrambi emblemi della tragedia. Nel giro l’iscrizione: A GIOVANNI BATTISTA NICCOLINI LA PATRIA; nel taglio del busto il nome del medaglista: G(IVSEPPE) GIROMETTI F[ECE]. R/ Riproduzione della scena IV dell’atto V del Foscarini: in primo piano, sulla destra, Antonio Foscarini ribadisce al padre (il doge Alvise, che, sulla sinistra, lo prega di difendersi) la sua volontà di tacere. La scenografia è completata, sulla destra, da un leone di San Marco posto su di un cippo con corona e, sulla sinistra, da un tavolino sul quale si trovano il necessario per scrivere e una clessidra. Al centro, dietro i personaggi, un ampio drappeggio. Nell’esergo, legenda in quattro righe: VN NOME SOL SARANNO | FOSCARINI E L’ONOR | FIRENZE VIII FEB[BRAIO] | MDCCCXXVII. Autore: Giuseppe Girometti; zecca di Roma; mm 56; coniata in oro, argento e bronzo.
Nel dritto della medaglia viene dunque raffigurato Giovanni Battista Niccolini. Costui nacque a Bagni di San Giuliano (oggi San Giuliano Terme, Pisa) nel 1782. La sua appartenenza a famiglia nobile non gli impedì di nutrire ideali repubblicani che gli costarono la condanna al carcere nel 1799. Laureatosi in legge a Pisa, insegnò dal 1807 nell’Accademia delle Belle Arti di Firenze, ma fu anche membro effettivo della Crusca, attivo difensore del fiorentino “vivo” per la lingua letteraria, drammaturgo, critico e poeta.
Nella sua condizione di letterato spicca senza dubbio l’amicizia che egli strinse con Ugo Foscolo, a Venezia, dove abitò per un periodo con la madre e il fratello, in Calle Larga San Marco (cfr. “Ricordi della vita e delle opere di G. B. Niccolini”, cit., vol. I, p. 97). Foscolo gli dedicò varie opere e adombrò la sua figura in Lorenzo Alderani, destinatario de “Le ultime lettere di Jacopo Ortis”. Fu inoltre amico di Manzoni, dal quale ereditò il gusto per la tragedia legata ai grandi temi della giustizia, della libertà, del vero “storico” e del vero “poetico”.
Esponente del movimento “neoghibellino”, fu membro del Parlamento toscano nel 1848 e testimone dei sommovimenti che portarono alla proclamazione del Regno d’Italia nel 1861; proprio in quell’anno morì a Firenze. Fu sepolto in Santa Croce, dove nel 1883, gli venne eretto un monumento funebre opera di Pio Fedi. La sua massima fama è certo legata alla produzione di varie tragedie storiche: dal “Giovanni Procida”, all’“Arnaldo da Brescia”, ma un successo davvero particolare venne riscosso dall’“Antonio Foscarini”, dramma caratterizzato da una forte ispirazione antitirannica e patriottica, particolarmente apprezzata all’epoca. Proprio l’“Antonio Foscarini” costituì, come si vedrà, la causa stessa della realizzazione della medaglia. Ambientata a Venezia all’inizio del XVII secolo, la tragedia rappresenta il dramma del protagonista, Antonio Foscarini, che per salvare l’onore della donna amata rimane vittima della condanna a morte dell’Inquisizione.
Antonio Foscarini era realmente esistito: membro di una delle più importanti famiglie patrizie di Venezia, era nato nella città lagunare nel 1570. Iniziò la sua carriera politica nel 1597; la sua abilità in ambito diplomatico lo portò a svolgere l’incarico di ambasciatore prima in Francia poi, nel 1609, in Inghilterra. Qui, pur avendo operato per anni a favore della Repubblica, fu vittima degli intrighi del suo segretario, Giulio Moscorno, che non esitò ad accusarlo davanti agli Inquisitori nel 1615, tanto che, rientrato a Venezia nel gennaio dell’anno seguente, Antonio venne imprigionato.
Solo dopo un lungo processo, nel 1618, egli poté riacquistare la libertà, totalmente scagionato. Contro di lui però continuavano le trame degli avversari. Secondo S. Romanin (“Storia documentata di Venezia”, Venezia 1858, VII, pp. 164-199), costoro arrivarono a far leva persino su una relazione di amicizia del Foscarini con la contessa Anna d’Arundel, da lui conosciuta in Inghilterra, per muovergli nuove più gravi accuse di attività spionistica ai danni della Serenissima. Arrestato l’8 aprile 1622, Antonio non ebbe modo di difendersi e, condannato alla pena capitale il 20 aprile, fu strangolato in carcere la notte seguente: il giorno dopo il suo corpo venne lasciato esposto, appeso per i piedi, tra le due colonne in piazza San Marco. Pochi mesi più tardi però si scoprì la falsità delle accuse e i colpevoli furono giustiziati. Il Consiglio dei Dieci, preso atto di ciò, con un gesto tanto coraggioso quanto politicamente abile, volle fare pubblica ammenda del suo sbaglio, decretando, il 16 gennaio 1623, la solenne riabilitazione del Foscarini e facendola stampare e diffondere pubblicamente. Oltre a ciò i Dieci fecero riesumare il corpo e con solenne cerimonia condurre sino alla chiesa dei Frari dove fu sepolto nella tomba di famiglia. Un busto e un’iscrizione tuttora ricordano il suo destino infelice nella chiesa di San Stae, adiacente al suo palazzo.
Nella tragedia “lirica” in cinque atti (progressivamente ridotti nel numero nelle edizioni successive), la realtà e gli stessi personaggi furono trasformati in modo vistoso: il padre del protagonista (il cavalier Nicolò) divenne un improbabile doge Alvise Foscarini, e gli inquisitori Contarini e Loredan, implacabili avversari di Antonio. Costui, tornato da un’ambasceria, viene a sapere che la sua amata, Teresa Navagero, è andata sposa all’inquisitore Contarini. Per rivederla, Antonio si introduce in casa del rivale e scopre che Teresa è stata costretta al matrimonio e che lo ama ancora. L’arrivo del Contarini costringe il Foscarini a rifugiarsi nel vicino giardino dell’ambasciatore spagnolo, dove viene sorpreso. A causa di una legge da poco approvata, che impedisce ai patrizi veneziani di comunicare con i diplomatici stranieri, Antonio viene imprigionato. Deciso, nonostante le suppliche del padre (come è rappresentato nel rovescio della medaglia), a non rivelare il motivo della sua presenza presso l’ambasciatore spagnolo per non compromettere la donna amata, viene condannato a morte. Troppo tardi giungerà Teresa a rivelare le ragioni della condotta del Foscarini. Dunque, nella tragedia del Niccolini, la denuncia della malvagità e della tirannia dei potenti (chiaramente allusiva alle istanze risorgimentali) si coniugava con la vicenda appassionata di due amanti infelici; si trattava dunque di tematiche opportunamente coerenti con il gusto romantico dell’epoca.
L’“Antonio Foscarini” venne messo in scena per la prima volta l’8 febbraio 1827, al Teatro del Cocomero di Firenze; il dramma coinvolse emotivamente a tal punto il pubblico da ottenere un clamoroso successo che si ripeté nei più diversi teatri italiani dove fu rappresentato. Fece eccezione Venezia, dove non fu concesso il benestare per la rappresentazione; inoltre, nella stessa città lagunare venne pubblicata, nello stesso anno, un’opera fortemente critica nei confronti della pièce: “La tragedia Antonio Foscarini di G. B. Niccolini presa in esame da G. B. Gaspari, giuntavi un’arringa inedita di Marco Foscarini”.
All’autore del “Foscarini” furono indirizzate numerosissime attestazioni di ammirazione ed affetto: accanto a versi celebrativi e ritratti venne dedicata al Niccolini la medaglia in questione. Questa fu realizzata per iniziativa della Società fondata a Firenze il 19 di quello stesso mese da Cosimo Ridolfi, Giuliano Frullani e Pietro Torrigiani. Costoro sottoscrissero, otto giorni più tardi, il “Manifesto” (riportato nei già citati “Ricordi della vita e delle opere di G. B. Niccolini”, vol. I, pp. 241-243) che, facendo appello al popolo italiano, apriva una sottoscrizione destinata a raccogliere i fondi necessari.
Da subito l’iniziativa assunse una valenza patriottica; testimoniata dalla scelta stessa del motto del dritto, che chiamava esplicitamente in causa LA PATRIA. Del resto il “Manifesto”, dopo aver chiarito che il modo migliore e più “durevole” di onorare il Niccolini era “l’omaggio di una medaglia rappresentante la effigie di G. B. Niccolini” precisava tassativamente che “concorrer dovendo il maggior possibile numero d’Italiani, non ponno in quella aver parte gli stranieri”.
Da ultimo, dopo aver ricordato i nomi dei componenti delle tre Deputazioni (una direttrice e due dpeciali) incaricate di sovrintendere all’esecuzione dell’impresa, il “Manifesto” così fissava i “modi della soscrizione”: “Condizioni dell’Associazione: 1°. Ogni soscrizione è fissata per un fiorino toscano, equivalente a lire italiane 1.40. – 2°. I nomi dei soscrittori saranno stampati secondo l’ordine alfabetico dei correlativi casati. Le note originali saranno consegnate a G. B. Niccolini unitamente al conio della medaglia. – 3°. Sarà stampato il rendimento de’ conti coi documenti giustificativi.”
La risposta dei sottoscrittori non si fece attendere: dal “Rendimento di conti della Società formatasi in Firenze nel dì 19 febbraio 1827 per coniare una medaglia a G. B. Niccolini”, pubblicato a Firenze nel 1830, veniamo a conoscere il nome dei 3090 “Italiani” (sic) distribuiti in tutte le città della penisola, che diedero il loro contributo. Lo scultore Lorenzo Bartolini modellò gratuitamente il ritratto del Niccolini; solo successivamente avrebbe realizzato compiutamente il busto (per l’Esposizione italiana del 1861). Da tale ritratto, il pittore Francesco Nenci immaginò ed eseguì, anch’egli gratuitamente, il disegno della medaglia; la data riportata in legenda (8 febbraio 1827) si riferisce ovviamente alla prima rappresentazione della tragedia.
Autore dei conii fu, a Roma, l’incisore Giuseppe Girometti (1780-1851): se ne ricavarono, nella primavera del 1828, 1 medaglia d’oro, 15 in argento e 50 in rame. Quella d’oro fu presentata al Niccolini da Cosimo Ridolfi (presidente della Deputazione direttrice) con ogni probabilità il 15 giugno 1828; in questa data infatti il drammaturgo ringraziava la Società con una lettera per “quella splendida testimonianza d’affetto che nella medaglia ricevuta dal Presidente di cotesta Deputazione mi hanno dato i miei Concittadini” (“Ricordi della vita e delle opere di G. B. Niccolini”, cit., vol. I, p. 244).
Compiuta l’opera, la Società si sciolse: suo ultimo atto fu la pubblicazione del già citato “Rendimento di conti”. Altre notizie relative a conii e medaglie provengono da un articolo di Vincenzo Salvagnoli (pubblicato in “Antologia di Firenze”, nel dicembre del 1830, pp. 43-44): “Molte medaglie in rame furono inviate ai più celebri Musei per essere testimonianze agli avvenire quanto i contemporanei stimassero il Poeta. […] Inoltre al medesimo Niccolini sono stati rimessi in dono i conii”.
Curiosa infine la notizia (riportata al solito nei “Ricordi della vita e delle opere di G. B. Niccolini”, cit., vol. I, pp. 308-309) legata a Lorenzo Da Ponte, ormai stabilitosi a New York. Egli, facendosi interprete dell’entusiasmo degli “Italiani d’America” per l’“Antonio Foscarini”, si impegnava a far tradurre, stampare e recitare la tragedia “a Nuova York”. Inoltre proponeva “a tutti gl’Italiani in America, di far registrare i loro nomi fra quelli degli Associati al conio della medaglia d’oro; e giacché agli stranieri ciò non è permesso, proporrò ai miei allievi (n’ho più di 500) di coniar qui una medaglia d’argento in onore di tanto ingegno”. Nulla sappiamo dell’esito di tale progetto; probabilmente, questa seconda medaglia rimase solo una pia intenzione.