(di Michele Cappellari) | La transizione monetaria conseguente all’annessione al Regno d’Italia del territorio già facente parte del Regno delle Due Sicilie presenta aspetti di particolare interesse sia per l’insolita gradualità con cui essa venne attuata che per la singolare circostanza che “l’estensione del corso legale delle valute decimali italiane venne disposta prima ancora che cessassero le operazioni militari su tutto il territorio” (cfr. De Mattia R., “L’Unificazione monetaria Italiana”, Torino 1959, p. 36 nota 2). All’atto dell’annessione, avvenuta in forza dei Plebisciti del 21 ottobre 1860, il Regno delle Due Sicilie era costituito: dai territori “al di qua del Faro”, ovvero dalle cosiddette “Provincie napoletane”, che comprendevano i territori delle attuali regioni dell’Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Molise e Puglia, oltre i distretti di Sora e Gaeta nel Lazio meridionale e di Cittaducale nell’attuale provincia di Rieti (ne erano invece esclusi i distretti di Benevento e Pontecorvo, che erano delle enclave appartenenti allo Stato Pontificio); dai territori “al di là del Faro”, comprendenti la Sicilia ed i suoi arcipelaghi.
Rispetto agli altri Stati preunitari, si tratta di un Regno dall’imponente estensione territoriale (114.387 Kmq.) popolato, secondo il censimento del 31.12.1861, da oltre 9 milioni di abitanti. Una popolazione considerevole, se si pensa che quella del Regno di Sardegna, censita alla stessa data, era meno della metà e che lo distingueva come il più grande e popoloso degli Stati preunitari italiani. All’atto dell’annessione, il sistema monetario in vigore nel Regno delle Due Sicilie era fondato sul monometallismo argenteo, introdotto da Ferdinando I con legge 20 aprile 1818, n. 1176, che rimase sostanzialmente immutato fino al 1861.
Questa legge, preceduta da altra promulgata il 18 agosto 1814 con la quale si era ripristinato nel Regno borbonico il sistema monetario tradizionale, dopo la parentesi decimale di tipo francese introdotta da Giocchino Murat durante il breve periodo della dominazione napoleonica, stabiliva che l’unità monetaria del Regno fosse il ducato, pari ad “una massa di argento del peso di acini napoletani 515, pari a cocci siciliani 416 161/1000 (cioè cocci siciliani 416 e cento sessantuno millesimi parti di un coccio), a grammi 22 943/1000 (cioè grammi 22 e novecento quarantatre millesime parti di un grammo), e del titolo di 833 1/3 millesimi, o sia di 833 1/3 millesime parti di argento puro di coppella, e di 166 2/3 millesime parti di lega, che ricade a cinque sesti di argento puro ed a un sesto di lega”. Il ducato così riformato, che tuttavia rappresentava una moneta di conto, non essendo mai stato coniato per la circolazione, si divideva in cento centesimi; a sua volta, il centesimo di ducato era diviso in dieci parti, chiamate cavalli o calli a Napoli e piccioli a Palermo. Nei territori “al di qua del Faro”, i centesimi prendono il nome di grana mentre in Sicilia assumono la denominazione di bajocchi.