(di Roberto Ganganelli) | Nell’evoluzione della moneta si distinguono due forme fondamentali di espressione, quella iconografica e quella epigrafica che hanno contribuito, dapprima, alla legittimazione dell’oggetto economico (mediante il simbolo dell’autorità ed il segno di valore), ed in seguito ad attribuirgli funzioni celebrative, di ostentazione, ma anche politiche e moralizzatrici. La stessa monetazione pontificia presenta uno sviluppo del genere, avvenuto su due filoni paralleli: mentre la moneta piccola riportava in prevalenza raffigurazioni di santi e allegorie facilmente riconoscibili, i nominali maggiori si facevano portatori di messaggi più importanti: citare testualmente passi delle Sacre Scritture, o celebrarne episodi di particolare valenza religiosa e, spesso, onorare il pontefice per le sue imprese di politico, mecenate ed illuminato benefattore.
Uno dei temi che rende celebre la monetazione papale dei secoli XVII e XVIII è, per l’appunto, la raffigurazione di soggetti architettonici ed artistici, cui sono dedicati i nominali argentei di maggior modulo (piastre, mezze piastre e testoni) ed alcune emissioni auree. La zecca di Roma disponeva, all’epoca, di grandi incisori (gli Hamerani sopra tutti) e, a cavallo tra XVII e XVIII secolo, attraversava un periodo di tranquillità, sia dal punto di vista della gestione che da quello produttivo. Ciò era dovuto anche all’avvenuta introduzione del torchio a vite che permetteva una lavorazione più rapida ed accurata dei tondelli, rispetto alla battitura a martello in uso nei secoli precedenti. Si comprende così facilmente come possano essere nate monete di gran pregio riproducenti opere architettoniche: il porto di Anzio, la fontana di Santa Maria in Trastevere, per non parlare del Pantheon e della Basilica di San Pietro. Se, da una parte, è immediato ravvisare le analogie tra opere architettoniche e soggetti monetati, è d’altra parte meno semplice attribuire con precisione la derivazione di un conio da un’opera pittorica o scultorea, in primo luogo perché l’ispirazione non è sempre palese e poi perché l’opera stessa è, a volte, sconosciuta ai più.
La mezza piastra dell’anno VII di Clemente XI (Cni XVII, 95; Munt. III, 58) (source: ArtCoinsRoma Auction 7, 20.05.2013, lot 1225) “L’Angelo custode” di Pietro da Cortona | olio su tela | Palazzo Barberini, Roma (source: web)La mezza piastra del 1706-1707 (anno VII del pontificato di Clemente XI Albani) costituisce un’eccezione in questo senso. Battuta al torchio per un peso di circa g 16 d’argento ed un diametro medio di mm 37, la moneta riporta, al dritto, la classica raffigurazione dello stemma di papa Clemente XI con tiara, chiavi decussate e fregi. E’ il rovescio anepigrafe, tuttavia, la vera rivelazione, poiché presenta la riproposizione pressoché fedele di un dipinto d’epoca barocca, “L’Angelo custode” di Pietro da Cortona. L’angelo uscente dalle nubi occupa il centro del quadro, a spiegare le ali verso l’alto e condurre il bambino per mano. La composizione, le proporzioni, le figure e gli stessi panneggi delle vesti sembrano non lasciar dubbi sul fatto che l’incisore Ermenegildo Hamerani abbia preso a modello per la moneta proprio il quadro del Berrettini.
Ciò che su tela (nelle ragguardevoli dimensioni di cm 143 x 225) è reso dal contrasto cromatico tra i toni cupi delle nubi e la luminosità delicata dell’apparizione, sul tondello è trasposto grazie ad un bassorilievo sapiente e ad un fascio di raggi sottili, che si aprono dall’alto avvolgendo l’angelo ed accentuandone il distacco dallo sfondo. Nel soggetto non vi è nessuna concessione al barocco tradizionale, ma piuttosto il recupero di una sobrietà già quasi neoclassica (tipica dell’ultima fase produttiva del Cortona), che poco sembra aver in comune con le elaborate raffigurazioni degli artisti del Seicento.
Ciò che colpisce è, quindi, la modernità della composizione, basata su una “diagonale tortuosa in cui le due figure, tenendosi per mano, sono delineate”, e grazie alla quale tutto appare ”fluido e mobile” (cfr. Anna Maria Lo Bianco, “Pietro da Cortona. 1596-1669”, Milano 1997, p. 372). Il quadro, ad olio su tela, fu eseguito nel 1656 su commissione di Papa Alessandro VII Chigi, insieme con un “San Michele Arcangelo”, oggi perduto. Per l’esecuzione delle due opere, il pittore toscano ricevette la cospicua cifra di cinquecento scudi, anche se alcuni studiosi, come il Pascoli e il Fabbrini, asseriscono che furono realizzate come segno di gratitudine verso il pontefice che aveva insignito l’artista dell’Ordine dello Sperone d’Oro.