Durante il regno di Umberto I, iniziato nel 1878, furono emessi biglietti di Stato convertibili in moneta metallica. Le matrici valevano come garanzia. Ma la burocrazia rese difficile questo cambio e gli italiani si abituarono alle banconote.
Dopo la difficile fase riorganizzativa del periodo postunitario, nei primi anni del regno di Umberto I si tornò a coniare monete d’argento di taglio medio. Le zecche di Roma e Milano si trovarono però impreparate di fronte alla richiesta perché non avevano disponibilità di adeguate scorte metalliche. Nel 1883 furono quindi stampati i biglietti di Stato da 5 e 10 lire. Si trattava di fatto della prima emissione cartacea unitaria dello stato italiano. Gli italiani la accolsero con un certo sospetto perché erano abituati ad abbinare all’idea di valore la fisicità del metallo.
Per vincere i dubbi, fu concessa la possibilità di convertire le nuove cartevalori in moneta metallica di pari importo. La procedura però era lunga e del tutto disincentivante. Infatti, in fase di produzione, sul bordo sinistro di ogni banconota era stampata un’appendice con una legenda (di solito il valore nominale e l’autorità emittente). Le banconote venivano poi tagliate in modo che una parte della matrice rimanesse alla banca emittente e l’altra metà, identica, facesse parte integrante della banconota. Chi voleva convertire la banconota in moneta doveva consegnarla in una filiale della banca (che rilasciava regolare fattura) e poi attendere l’autorizzazione. La filiale, dopo aver inviato la banconota alla sede centrale della Banca d’Italia, a sua volta attendeva l’autorizzazione a procedere: a Roma, infatti, veniva verificata la corretta coincidenza con il libro-matrice.
Il procedimento poteva richiedere tempi di attesa anche molto lunghi, da trascorrere senza banconota e senza moneta. Superfluo dire che questa circostanza scoraggiò le richieste e alla lunga i cittadini dovettero familiarizzare con le banconote.