Prosegue il racconto in prima persona di un appassionato di monete, scritto da un appassionato di monete.
Dopo il quarto capitolo, continua la pubblicazione con cadenza settimanale del libro di Demian Planitzer Memorie di un nummomane. Ovvero: tramonto di un collezionista di monete antiche (pp. 128, Albo Versorio edizioni, Milano 2017, € 9,50).
Capitolo quinto. In fiera
Di come una giornata meravigliosa possa arrivare a schiaffeggiare un’anima.
“Mi lavo e salgo urtando la vita, come
un albero senza radici che non vuole essere
compreso se cade da solo”.
Ma cosa vuol dire essere nummomani?
Cosa significa nel Duemila e… amare le monete antiche?
Dimmelo.
Perché ti prendono la testa?
Cosa ti fanno provare? Felicità?
Quale maleficio racchiudono per rubarti l’anima?
Basta domande. Dammi risposte adesso.
Cosa ti metti a bere il caffè ora? A fumare quei tuoi sigari all’anice?
Come vuoi, che maniere! Lo dico io.
Le monete fanno entrare aria e pensieri così si viaggia senza
accorgersene sul barcone della vita, in mezzo alla Storia vera che non
è mai esistita?
Ma per quale motivo devo camminare per ore tra gli stand della
fiera di numismatica di Verona senza risolvermi a comperare nulla,
con una nausea in fondo all’animo che mi opprime e mi comprime i
sensi perché non ho i soldi per regalarmi niente? E, per giunta, quelli
che sono riuscito a racimolare mi permettono di acquistare una moneta
che non mi soddisfa per nulla.
E allora continuerò a girovagare tra le monete inebriandomi di
bagliori d’oro e d’argento, intontendomi sempre più velocemente di
effigi modellate nel bronzo che fisserò con crescente velocità finché
gli occhi, stanchi e acquosi, non desidereranno null’altro che uscire
da quei capannoni pieni di tentazioni irresistibili che mortificano lo
spirito e l’anima e mi sbattono sulla battigia dura del mio egoistico
assurdo.
Mi ridurrò a vagare con un caffè caro e cattivo in corpo che mi
suggerirà di lasciar perdere per altri sei mesi, fino al prossimo
appuntamento quando sarò ancor più sprovvisto di denaro, e nemmeno
i listini potrò chiedere ai commercianti di nummi perché vorranno
registrarmi e, una volta conosciuto il mio nome, mi diranno che non è
possibile che in tre anni non abbia mai comperato nulla da loro.
Una nausea feroce mi assale fino a cerchiarmi la testa e a stringermi
la fronte come una sinusite improvvisa dopo ore di motoscafo a tutta
velocità. Il mondo mi girerà attorno e non riuscirò più a fermarlo
in quell’aria urlante di vociare inutile, in mezzo a taccuini pieni di
desolanti annotazioni, di speranze bruciate, di occhi consumati di
egoismo abbagliante.
Nummomani, nummofili, perdigiorno disperati si aggirano tra le
inutili colonne ebbre di un passato ingrato, si sporgono da finestre
incollate sul muro, si affacciano su finiti panorami di sciocchezze
contorte.
Butto l’occhio su questa umanità idiota e vedo che si sposta come
un’onda nella risacca della vita, imputridendo tra insenature piene
di bottiglie di plastica che galleggiano vomitando compiaciute alghe
morte e frantumi di legno. Questa è la speranza del mio futuro, qua
vorrebbe nuotare la più trasparente passione, la mia voluttà di passato?
Le mie braccia cercano dell’altro spostando lo zainetto nero sulla
spalla sinistra, mentre banconote da cento euro si sfilano per rubare
dalle teche un aureo romano di Antonino Pio. Le pagine di plastica
dei contenitori di monete girano come tante ali di farfalle sui ganci di
ferro arrugginiti, volteggiano e poi cadono per il peso mentre i nummi
vengono spogliati dell’ultimo perdono rimasto. Poi stanno là nudi ed
orfani ad osservare l’aria che frigge sotto le lampade a neon che lavano
la puzza di urina e sterco di cavallo, perché su questi pavimenti, la
settimana scorsa, erano installati i box e stipati i quadrupedi per la
fiera equina.
Povere effigi, a respirare questi miasmi per essere vendute alle
fameliche voglie di violentatori di monete. Dita luride di salsicce e
ketchup si lanciano ad accarezzare volti indifesi per rubare emozioni
e vibrazioni soavi. Gli occhi dei venditori tamburellano sulle falangi,
come gli sguardi del croupier sul tavolo verde della roulette. Il sospetto
si addensa sui quattro metri quadri dei tavoli espositori, come fosse un
campo in balìa del barbaro invasore. Serpeggia negli occhi la tensione
del furto anche se uno strato di plexiglass rassicurante ormai difende i
dischi dalle bramosie urlanti.
Le soste si diradano presso gli stand, i venditori paiono riconoscermi
e pesare la mia povertà assoluta e non c’è nulla di peggio che questo
per destare sospetto. Ecco che inquadro la moneta desiderata che
ammicca innocente da quegli oblò.
Telefono alla mia dolce metà per l’ok al prelievo allo sportello
del bancomat. “Fai come vuoi, sai come siamo messi”, è la risposta
inequivocabile della donna lontana nel telefono, mentre la gioia che mi
illuminava comincia a ritrarre le mani come occhi cornuti di lumache
spaventate.
Il sorso della delusione brucia la gola, il bancomat è distante
e il rimorso si mette in moto per divorare le sedie, per ingrandirsi
in mezzo ai tavoli dove i collezionisti, questa razza di ingrati, mi
osservano come se indovinassero il mio portafoglio vuoto, disperato e
l’impotenza monetaria del mio ego piumato.
Le monete mi lanciano dietro insulti dopo avermi allettato come le
sirene di Ulisse. Mi convinco che il sacrificio della rinuncia potrebbe
santificare di più il mio legame con loro. Ma questa volta non funziona.
Ho come l’impressione che la gente mi lasci passare per compassione,
una hostess mi consegna un volantino inutile che mi acceca la vista
e fa traballare le mie certezze. La sensazione è che l’ubriacatura si
stia spegnendo, non guardo più gli stand per non incrociare ancora gli
occhi noti dei venditori che paiono dire “ebbene, si è deciso questo
imbecille?”. “Quale prende questo fallito?”. Perché, sapete, sono tre
ore che viaggio come un treno locale tra questi binari disperati.
Fuggo a grandi passi infilandomi tra i banchi dei francobolli, oggetti
inutili e assurdamente pretenziosi. La mia anima si è rifugiata nello
zaino che ora tengo in mano, scappo come se avessi rubato una moneta
dai tavoli urtando contro le spalle di vecchi nummofili rinsecchiti
avvolti in caldi cappotti fuori moda. Gli occhi si inumidiscono di
rabbia e di dolore, la gola secca nell’arsura della rinuncia, il frastuono
mi rimbalza nelle orecchie anche nel silenzio del conta-persone
che pare inceppato per dispetto. Due hostess ammiccano nella mia
direzione sorridendo, me ne esco sanguinante e stanco con il cuore che
si chiude come un ventaglio tra l’impossibile e l’illecito.
Tolgo la catena alla bici arrugginita e pedalo per allontanarmi da quel
casinò dell’anima, da quella bisca tumultuosa, da quella schiavitù dei
sensi e provo a respirare l’aria fresca di novembre guardando l’azzurro
che trascolorando mi cancella dalla mente le monete e gli struggimenti
perché fuori questo mondo non esiste. Un semaforo zampilla verde
di vita lavorando gratuitamente tra lo smog che ammorba l’aria. Il
cavalcavia possente sputa auto come un grande tritacarne vomita
cubetti di morte. Quante monete stasera tornano in case sconosciute
per vivere in cassetti inconsapevoli a sfamare pupille divorate dal
verme peccaminoso del nonsenso? Ora sfrecciano nei treni avvolte
dalla paura che qualche mano le sottragga al nuovo destino, magari
per fonderle in un crogiolo sotto una tenda di una tribù di nomadi.
L’aratro smuove la terra per girare le lancette e seminare la vita
in chi crede di stendersi al sole ma invece si sdraia a fianco della sua
morte.
La vecchia bicicletta sembra convinta di risalire il passato della
storia, e io mi alzo sui pedali per vedere più in là dove la strada sembra
sparire ma invece continua ancora a navigare sull’asfalto. Mi siedo
sul treno ora e medito sulle stravaganze di una mente di un tale – che
sono io – che non si sa controllare e vaga inebriata sulle valanghe
cubiche del nulla, beve le nuvole inutili del futuro tra la meraviglia di
una tenda felice che svolazza rovescia sotto le folate di un vento nero.
La porta della mente è socchiusa, lascia ancora entrare l’ebbrezza di
un qualcosa che non è più la numismatica, il fascino dell’arte, l’affetto
del passato, è la stanchezza della rinuncia che si alza presuntuosa per
offrirsi sull’altare del sacrificio. Ma tra un po’ la rabbia prenderà il suo
posto e si scaglierà contro chi ha vietato l’assurdo, ha negato l’amore,
ha voluto fosse respinto l’amplesso dello spirito.
Entro in casa torvo, con gli occhi neri e un odio sottopelle simile
ad una vetrata che avvolge però, quasi fosse un celophan tremendo, le
domande che come rondini gli sbattono contro.
“Volete lasciarmi in pace?”.
“Cos’hai?”, mi chiedono vorticando attorno bugie che si stanno
infilando i pigiami. Passi nudi battono gli scalini verso la camera.
L’offesa è lei, addirittura.
Il buio mi rapisce il cuore e mentre chiudo gli scuri bevo il nero
inchiostro denso della notte che non lascia scappare i pensieri, ma
li ritorna più appuntiti di prima. Verso la sambuca nella tazzina per
schiaffeggiare una lingua velenosa. Mi lavo e salgo urtando la vita,
come un albero senza radici che non vuole essere compreso se cade
da solo.
Butto il mio corpo sul letto con la paura di me stesso che si sdraia al
mio fianco per rinfacciarmi la giornata legnosa di un giorno scorrevole
che si è divertito a smerigliarmi l’anima.