(di Michele Chimienti | dal “GdN” n. 28 di maggio 2014, pp. 22-29) | Falsificare monete è stato un crimine diffuso in tutte le epoche e i falsari sono sempre stati un tormento per i governi. In passato, la falsificazione delle monete non era perseguita solo per il mancato introito dei diritti di zecca da parte dello Stato o per le perturbazioni che portava al commercio, ma in quanto reato di lesa maestà al punto che nel Medioevo la pena prevista era quella del rogo, come per gli eretici. Quando la moneta era falsificata in grande quantità era in grado di arrecare grave danno ai commerci e all’economia, ed alcune nazioni in guerra con altre cercarono di danneggiare i nemici mettendo in circolazione falsificazioni delle loro monete. Ciò accadde nel Medioevo come durante la II Guerra mondiale, quando i Tedeschi falsificarono ingenti quantità di sterline.
Nel Medioevo anche gli spiccioli dovevano contenere una parte d’argento per essere accettati, ma quando il loro valore era minimo, una moneta di buon argento sarebbe stata troppo piccola per essere maneggiata con facilità. Comparve così la moneta di mistura, in cui all’argento era aggiunta una notevole quantità di rame. Col tempo, il fino queste monete divenne sempre più basso e in alcuni casi si arrivò a meno del 10% d’argento. Solo con l’evoluzione dell’economia e l’affermarsi di forti poteri centrali nacque il concetto di moneta fiduciaria, il cui valore viene garantito ed imposto dal governo ed è molto maggiore dell’intrinseco: una moneta che, dunque, può “apparire” falsa.
Un esempio si trova anche nella “Divina Commedia” dove Dante considera come falsario addirittura un re di Francia (XIX canto del “Paradiso”, vv. 118-120: “Lì si vedrà il duol che sovra Senna / induce, falseggiando la moneta, / quel che morrà di colpo di cotenna”). Si tratta di Filippo il Bello (morto per un colpo alla nuca a causa di una caduta da cavallo) che ai tempi di Dante effettuò una pesante svalutazione del metallo nobile contenuto nelle sue monete. Contro di lui Dante aveva anche altri motivi di astio poiché aveva umiliato Bonifacio VIII, aveva fatto trasferire ad Avignone il Papato ed infine aveva perseguitato i Templari per impadronirsi delle loro ricchezze sino alla loro distruzione totale.
Da sinistra a destra: falsari al lavoro in una stampa risalente al XIX secolo; Filippo IV il Bello, re di Francia, accusato da Dante di falso monetario; zecca clandestina in aperta campagna in un’incisione tedesca del XVI secolo
Ma chi erano i falsificatori di monete? Viene spontaneo immaginare loschi figuri provenienti dagli strati più umili della popolazione. E invece no! Molto spesso erano dei nobili: infatti, solo con ampi mezzi finanziari era possibile fabbricare in quantità monete false, di buona qualità e difficilmente distinguibili dalla buone. Quando uno spacciatore di moneta falsa veniva colto sul fatto, ciò che più interessava, allora come oggi, era risalire a chi l’avesse fabbricata o avesse organizzato la zecca clandestina. La tortura era il mezzo preferito d’indagine e, se proprio non si riusciva a mettere le mani su nessuno, si cercava di favorire la delazione con premi in denaro e promettendo l’impunità ad un eventuale complice “pentito”.
Il metodo più efficace per produrre le monete false era quello di usare le stesse tecniche delle zecche ufficiali. Si colava metallo fuso su di un piano di pietra ben ingrassato; poi la lamina che si formava era battuta su di un incudine con un martello sino a ridurla allo spessore desiderato. Si ritagliavano con cesoie delle strisce, successivamente divise in quadretti. Questi venivano arrotondati con cesoie più piccole e un martello. I tondelli così ottenuti venivano posti sopra un conio, infisso in un ceppo di legno. Dopo avervi sovrapposto il conio superiore si assestavano alcuni colpi di martello.
Da sinistra a destra: il diploma di concessione della zecca a Bologna da parte di Enrico IV (1191); coppia di antichi conii, di incudine e di martello; bolognino grosso del XIV secolo (mm 27), esemplare autentico in argento (a sinistra) e falso in rame con tracce di argentatura (a destra)
La parte in cui la produzione di monete false di distingueva da quella legale consisteva, ad esempio, nel ricoprire un tondello di rame con argento in modo che dopo essere averla coniata la moneta sembrasse di buona lega. Se questa tecnica veniva applicata all’oro, che ha un peso specifico elevato, era necessario usare tondelli di piombo altrimenti, prendendo in mano la moneta, si sarebbe capito facilmente che era troppo leggera. Ma il piombo è un metallo tenero, per cui esisteva un modo molto semplice per scoprire questo tipo di falso: era sufficiente morderlo o tentare di piegarlo. Pertanto il metodo più sicuro per falsificare le monete d’oro era di limitarsi a peggiorare la lega, aggiungendo argento e rame in eccesso. Nel XV secolo un falsario bolognese confesso di aver prodotto ducati d’oro veneziani falsi.
La fase più complessa della falsificazione era però quella di fabbricare i conii incidendovi un impronta che fosse il più possibile simile a quella delle monete originali, ma pochi erano i soggetti in grado di prepararli. Per questo motivo nelle zecche ufficiali vigevano controlli molto stretti sul personale. Tuttavia non erano sempre sufficienti come quando, nel XV secolo, un dipendente infedele della zecca di Bologna, tale Albertazzi, fuggì a Modena con una coppia di conii. A volte capitava che un lavoratore di zecca disoccupato fosse ingaggiato per falsificare monete oppure che si mettesse a lavorare in proprio. A Bologna, nel 1266 venne impiccato per aver fabbricato zecchini d’oro falsi un certo Guido Egani, che era giunto da Venezia due anni prima per lavorare in zecca.
Ma c’erano anche dei poveri diavoli che tentavano la sorte attratti dalla speranza di un facile guadagno. Poiché non possedevano conoscenze tecniche per produrre dei conii, tuttavia, si limitavano a creare stampi in cui colare il metallo fuso contenente soprattutto stagno, che era biancastro come l’argento. Nel 1332 furono condannati al rogo due falsari bolognesi per aver fabbricato bolognini di stagno e bronzo colandoli in stampi fatti di cenere impastata con uova. Erano usati anche gli ossi di seppia in cui si imprimevano facilmente le monete buone e nello stampo così formato si colava il metallo.
Nel 1469 il nobile bolognese Egano Lambertini, antenato del futuro pontefice Benedetto XIV, fu condannato per aver protetto un falsario che aveva prodotto monete contraffatte nel suo castello di Poggio Renatico, feudo di famiglia. In un primo tempo il Lambertini fu condannato a tre anni di esilio e a pagare 1000 lire. Ma poi fu raggiunto un accordo per una somma di 150 lire. Evidentemente, se il delitto di falsificare le monete era considerato gravissimo per i popolani, era un peccato veniale per chi apparteneva alla nobiltà. Infatti Egano Lambertini, dopo quindici anni, entrò a far parte a vita della magistratura bolognese dei Sedici riformatori, il massimo organo di governo della città.
Da sinistra a destra: in alto, scudo d’argento da 90 bolognini del 1741 (mm 42) a nome di Benedetto XIV (tra gli antenati del pontefice vi fu anche un falsario!); in basso, una delle più celebri e rare tipologie protagoniste di truffe monetarie, il luigino di Seborga (mm 21); antica incisione raffigurante una lezione presso un ateneo medievale
Tutti gli strati sociali erano affascinati dalla possibilità di fabbricare in proprio monete e nemmeno gli ecclesiastici erano immuni dalla tentazione di facili guadagni producendo monete false o contraffatte. Tra l’altro, questi ultimi si sentivano protetti dal privilegio di poter essere giudicati solo dai tribunali ecclesiastici. Nella seconda metà del XVII secolo l’abate di Seborga fece coniare delle contraffazioni di luigini con il proprio ritratto che tuttavia, per il loro intrinseco scadente, furono vietati dalla Repubblica di Genova.
Nel Medioevo la principale attività economica bolognese era l’Università, frequentata da un numero elevato di studenti stranieri che erano protetti da alcuni privilegi per favorirne l’afflusso. Nel 1476 uno studente genovese cadde nella tentazione di falsificare monete e quando fu scoperto fuggì a Firenze. Ma non riuscì a farla franca perché, almeno contro i falsari, i governi erano solidali tra loro, quindi le autorità fiorentine lo arrestarono e lo rispedirono a Bologna. Come era consuetudine venne torturato e confessò i nomi di vari complici. Visto che gli studenti godevano a Bologna di particolari privilegi non venne condannato a morte ma al carcere perpetuo dove, in ogni caso, morì dopo poco tempo assieme a molti suoi complici (anch’essi dovevano essere studenti se non erano stati condannati alla pena capitale).
Da sinistra a destra: esemplari da 3 ducati in oro “della carestia” (1529), in alto un esemplare autentico e in basso uno falso (mm 35); stemma della città di Bologna
A Genova, tra i rematori delle galere, sembra che vi fosse una notevole attività di produzione e smercio di monete false, in primo luogo perché tra i galeotti finivano a volte falsari che erano scampati alla pena capitale. Durante i mesi invernali, inoltre, le navi erano ferme in porto e i galeotti dovevano provvedere alla propria sussistenza. Ognuno lo faceva come poteva e talvolta, anche se non avessero voluto, i galeotti erano costretti a delinquere. Ad esempio, alla fine del XVI secolo un galeotto bergamasco, che aveva lavorato come orefice, denunciò di aver subito pressioni e la promessa di ottenere la libertà purché fabbricasse degli stampi per monete. Con essi si dovevano falsificare dei reali, monete coniate nelle colonie spagnole in America e la cui produzione era così ampia che nel XVII secolo esse avevano un aspetto molto trascurato, sia per l’impronta del conio, sempre incompleta, sia per i tondelli dai contorni irregolari (per questo motivo erano chiamati “maltagliati”).
A Genova ne arrivavano enormi quantità a causa degli intensi rapporti tra il re di Spagna ed i banchieri genovesi al punto che vi era quei tempi un detto secondo il quale “l’argento nasceva in America, passava per la Spagna e moriva a Genova”. Qui i maltagliati erano trasformati in moneta locale oppure, poiché il valore dell’argento in essi contenuto era molto conveniente rispetto al valore nominale, venivano inviati in zecche di altri Stati dove erano fusi per produrre nuove monete. Si comprende bene che, essendo coniati in modo imperfetto, era più facile imitarli rispetto ad altre monete. Un altro galeotto di origine milanese confessò di essere stato ricercato da un orefice tedesco perché spacciasse le sue monete false.
Da sinistra a destra: modello di galea genovese (tra i forzati ai remi finivano spesso dei falsari); ,maltagliato spagnolo da 8 reali in argento di Filippo risalente al 1733 (mm 40); antica stampa che mostra come siasempre stato labile il confine tra i “mestieri” dell’arlchimista e del falsario di monete
A volte, anche nelle zecche ufficiali accadevano fatti che oggi sembrerebbero andare oltre i confini della legalità, o almeno del buon senso. Alla metà del XVI secolo operò presso la zecca di Genova l’alchimista Adamo Centurione che affermava di essere in grado di trasformare in oro i metalli vili. A questo scopo fu stipulato un vero e proprio contratto con la zecca genovese in cui però si specificava che sarebbe stato remunerato solo in caso di successo.
È adesso opportuno distinguere le monete false, prodotte in modo fraudolento, falsificando l’impronta (cioè il sigillo) di un’autorità emittente, dalle imitazioni e dalle contraffazioni. A volte le zecche emettevano in piena legalità monete che imitavano quelle di altre zecche. Nel Medioevo pochi sapevano leggere, quindi riconoscevano le monete solo dal loro aspetto generale. Quando una città decideva di aprire una zecca, o di emettere un nuovo tipo di moneta, effettuava un investimento notevole. Per avere la certezza di non fallire e che sarebbe stato possibile diffondere la propria moneta sui mercati, molte volte le veniva dato un aspetto simile a quello di nominali di successo battuti in altre zecche. In questo modo le nuove monete erano accettate senza sospetto.
A sinistra, il celebre grosso agontano di Ancona e a destra i due tipi di grossi pepolesi dell’officina monetaria di Bologna realizzati sullo stesso prototipo (mm 21-22)
Ad esempio, la zecca di Bologna imitò due volte il grosso agontano di Ancona. Nel 1337 Taddeo Pepoli fece battere una moneta da due bolognini che fu chiamata pepolese, simile ed equivalente all’agontano emesso da Ancona. Alla fine del secolo Bologna emise di nuovo un altro agontano. In entrambi i casi l’operazione era perfettamente regolare, perché il nome della città emittente era scritto con chiarezza ed il suo contenuto d’argento era identico a quello degli originali. In molte altre occasioni furono le monete bolognesi, soprattutto i bolognini, ad essere imitate. I casi che abbiamo appena esposto erano imitazioni legali, ma vi furono numerosi episodi in cui le zecche personali di alcuni principi andarono ben oltre i limiti della legalità.
Alcuni nobili godevano del diritto di battere moneta, spesso acquistato a caro prezzo. Così aveva fatto Giovanni II Bentivoglio che acquistò questa concessione dall’imperatore Massimiliano I, nel 1494. Giovanni ne fece un uso corretto battendo le monete autorizzate dall’imperatore al giusto peso ed alla giusta lega, anche se poi papa Giulio II affermò che vi aveva posto il proprio ritratto illegalmente, visto che le aveva emesse a Bologna (che si trovava sotto giurisdizione papale) e comprese anche questo fatto tra le motivazioni della sua scomunica e del suo bando da Bologna nel 1506.
Doppio ducato in oro (mm 30) e mezzo ducato in oro (mm 20) a nome di Giovanni II Bentivoglio (1495-1506)
Vi furono invece altri nobili che dopo aver ottenuto il diritto di battere moneta ne facevano un uso scorretto producendo contraffazioni. Essi facevano battere moneta con le indicazioni della propria zecca e un aspetto generale simile a quello di monete di altre zecche. Sin qui la manovra sarebbe stata lecita, ma il trucco consisteva nell’usare una lega inferiore all’originale. Così le monete avevano lo stesso peso ma meno metallo prezioso. Per questo motivo sono definite contraffazioni e non imitazioni (in realtà le zecche oneste, danneggiate da queste manovre, le definivano false). Giocando sull’equivoco quei principi mettevano in circolazione grandi quantitativi di monete contraffatte incamerando in cambio monete buone. Ovviamente le contraffatte perturbavano i mercati in cui venivano spacciate e per questo motivo si cercava di vietarne l’introduzione. Parecchie furono le monete bolognesi contraffatte da altre zecche: in particolare il bianco, la muraiola ed il quattrino.
Nel 1288 furono arrestati due individui che avevano falsificato una trentina di iperperi d’oro bizantini con i quali trassero in inganno alcuni banchieri bolognesi che li cambiarono per 21 soldi l’uno. Imitare gli iperperi bizantini, come abbiamo visto per i maltagliati spagnoli, non doveva essere difficile poiché si trattava di monete d’oro scodellate coniate in maniera sommaria e che avevano progressivamente peggiorato la loro lega. Naturalmente la condanna per i falsari bolognesi fu quella solita del rogo, ma per chi aveva osato imbrogliare soggetti così potenti come i banchieri non sembrava sufficiente. Così ad uno dei due, prima di essere bruciato vivo, vennero colate in gola le monete fuse che aveva falsificato. Quanto all’altro (forse perché erano già finite le monete) fu bollito in una caldaia piena d’acqua e solo dopo, forse per completare la condanna secondo le regole ufficiali, fu messo al rogo (non si sa se vivo o morto).
Da sinistra a destra: il bando con cui, nel 1572, si proibivano i bianchi di Guastalla simili, ma di minor valore, rispetto a quelli bolognesi di Pio IV; bianco bolognese e imitazione prodotta a Guastalla dalla zecca dei Gonzaga (mm 32); nemmeno i quattrini (mm 24) di metà XV secolo, pur di scarso valore, sfuggono all’ingegno dei falsari bolognesi
Di solito, prima di essere giustiziati i falsari erano torturati per scoprire eventuali complici. Un esempio di come si poteva svolgere un interrogatorio è quello attuato a Bologna nel 1471 nei confronti di un tedesco trovato in possesso di quattrini falsi. Dell’indagine restano gli atti nell’Archivio di Stato di Bologna che la dicono lunga sui metodi dell’epoca: interrogato dapprima dal podestà, disse che aveva ricevuto i quattrini falsi da un certo Agostino di cui non sapeva nient’altro. Naturalmente la risposta non venne considerata soddisfacente ed allora passò nelle mani di chi doveva proseguire le indagini con la tortura.
Venne spogliato ed appeso per le braccia, legate dietro la schiena, e gli venne dato un primo “tratto di corda” che consisteva in un forte strattone alla corda a cui era appeso l’indagato, provocando lo slogamento delle spalle. Poiché l’accusato continuava a dichiararsi innocente anche dopo un secondo tratto di corda, fu acceso un fuoco che venne avvicinato sempre di più ai suoi piedi. Dichiarò allora di aver ricevuto i quattrini da un certo mastro Guglielmo da Imola senza sapere che fossero falsi. La prosecuzione della tortura non diede altri risultati e fu riportato in carcere. Dopo alcuni giorni di “interrogatori” non cambiò versione per cui, secondo gli atti processuali, “visto che era gravemente infermo e quasi morto” e che comunque aveva “purgato gli indizi a lui sfavorevoli” venne rilasciato e portato all’ospedale per le cure.
Da sinistra a destra: stemma della famiglia Malvezzi Campeggi da un antico documento: la torre di proprietà dei Malvezzi usata come zecca clandestina; alcune forme di tortura usate sia dall’Inquisizione che dalla magistratura ordinaria, anche in indagini per falso nummario; artifizi di zecca progettati da Leonardo Da Vinci; torchio da coniazione del XVI secolo conservato presso il Museo della scienza e della tecnica di Milano
Si è accennato al nobile bolognese Egano Lambertini condannato nel 1469 perché coinvolto in un caso di falsificazione. Ora esamineremo in modo più accurato un altro episodio accaduto pochi anni dopo e che coinvolse ben venticinque persone capeggiate da un altro nobile bolognese, Floriano Malvezzi, del ramo che diventerà Malvezzi Campeggi. Un certo Giovanni Giacomo Gabrieli aveva tentato di acquistare della carne con cinque grossi fiorentini falsi ma aveva insospettito il macellaio per cui fu scoperto ed imprigionato. Nonostante i componenti della banda avessero giurato, all’inizio di quella pericolosa attività, di mantenere il segreto, il povero Giovanni Giacomo doveva essere troppo spaventato all’idea della tortura e la confessione si trasformò in un fiume in piena. Dalla sua confessione emerge che si trattava di un’operazione organizzata in grande stile e che i metodi utilizzati erano gli stessi di una zecca. Certamente le monete prodotte dovevano essere di ottima qualità. La maggior parte delle operazioni era eseguita dentro le mura della città. Il metallo veniva fuso in casa dell’orefice Pietro Razali dove Giovanni Giacomo aveva lavorato azionando i mantici. Ma era usata anche la cantina di Sebastiano Agucchi dove si trovavano, per l’epoca, due veri e propri gioielli tecnologici.
Si trattava di due torchi, utilizzati per ritagliare rapidamente i tondelli o forse per coniarli a caldo senza fare troppo rumore. Purtroppo il loro esatto utilizzo non è specificato negli atti dell’interrogatorio. Si trattava comunque di un metodo molto sofisticato se si tiene presente che solo mezzo secolo dopo Benvenuto Cellini avrebbe descritto per la prima volta l’uso di un torchio da coniazione. L’utilizzo di un torchio per produrre monete non era previsto nemmeno da Leonardo che sempre all’inizio del XVI secolo, progettò alcuni strumenti per la zecca di Roma.
Ma torniamo ai dati emersi dalla confessione di Giovanni Giacomo. Le lastre da cui ricavare i tondelli dovevano essere assottigliate a martello ed un fracasso del genere non poteva passare inosservato all’interno della città. Quindi questa funzione era svolta nella Rocca di Cavagli, una torre isolata posta nel feudo dei Malvezzi al confine tra Bologna a Ferrara. La perfezione estetica delle monete era assicurata dall’utilizzo di diverse paia di conii. Due paia servivano a coniare dei “grossi fiorentini”, tre dei “grossetti del cavallotto di Ferrara” ed un numero imprecisato per dei quattrini bolognesi e ferraresi.
Da sinistra a destra:lire bolognesi in argento di Alessandro VII (mm 32; esemplare autentico, esemplare contraffatto, esemplare contromarcato al R/); bando bolognese del 1668 relativo alle azioni contro le false monete ai tipi bolognesi; disegni originali per le nuove lire bolognesi destinate ad arginare il fenomeno dei falsi
Come detto, tra i nomi fatti da Giovanni Giacomo emerge dagli atti dell’interrogatorio quello di Floriano Malvezzi, come uno dei capi se non il principale organizzatore dell’impresa. Era il figlio secondogenito di Carlo, primo conte della Selva, che fu il capostipite del ramo collaterale che in seguito prese il nome di Malvezzi Campeggi. Floriano fu fatto cavaliere da Giovanni Il Bentivoglio nel 1476, due anni dopo questo episodio, all’età di 28 anni. Evidentemente per il nobile bolognese l’operazione di falsificare monete era stata una “ragazzata”. Come risulta dagli atti dell’interrogatorio, Giovanni Giacomo fece più volte il nome del Malvezzi. Ma, se esso si trova citato spesso durante l’interrogatorio, non comparve mai nel corso del processo. Questo si concluse con la condanna a morte, ma in contumacia, di tutti i partecipanti all’impresa criminosa. Infatti riuscirono tutti a fuggire prima dell’arresto e l’unico a morire fu l’unico testimone catturato, trovato impiccato nella sua cella. Si potrebbe pensare ad un suicidio per il timore di ciò che lo aspettava ma la cosa strana fu che l’unico in grado di dire qualcosa sull’accaduto, poiché era carcerato con lui, era un altro falsario. Si trattava di un ebreo che aveva prodotto zecchini falsi, al quale abbiamo accennato prima, e che venne giustiziato per decapitazione immediatamente dopo il suicidio di Giovanni Giacomo. Sorge il sospetto che si volesse evitare la comparsa del nome di Floriano Malvezzi negli atti processuali, evitando la cattura e quindi l’eventuale confessione di altri complici ma soprattutto sopprimendo l’unico che aveva parlato e che avrebbe potuto dire cose compromettenti nel corso di un processo pubblico.
Un altro importante episodio di falsificazione monetaria a Bologna si ebbe tre secoli dopo. Nel 1665 il governo, prendendo atto della carenza di monete d’argento che ostacolava i commerci, decise di attuare ogni sforzo per incrementare il circolante nel territorio delle tre legazioni di Bologna, Ferrara e Romagna. Venne coniato un ingente quantitativo di lire da 20 bolognini con lo stemma di Alessandro VII, ma ben presto comparvero in circolazione anche delle falsificazioni, in quantità tale da turbare la fiducia nelle nuove monete e il commercio. Il problema scoppiò nella primavera del 1666 quando i cardinali legati di Bologna, Ferrara e Ravenna intrecciarono una fitta corrispondenza per trovare una soluzione. Da parte sua il legato di Ferrara emise un bando in cui, per eliminare le lire bolognesi false, ordinava di portare tutte le lire in circolazione allo zecchiere che avrebbe distrutto le false e punzonate le buone per renderle riconoscibili. Il bando descriveva con cura l’aspetto della punzonatura: un piccolo fiore a forma di giglio posto tra la coda ed il corpo del leone. Non si sa quale successo ebbe l’operazione, ma è certo che fu avviata, come testimonia l’esistenza delle lire contromarcate. Da parte sua la zecca di Bologna decise di cambiare il rovescio delle lire emesse in seguito, modificando il leone rampante o sostituendolo con la figura di san Petronio. Tra i documenti della zecca bolognese si conservano ancora i disegni proposti dall’incisore per scegliere il nuovo modello. A causa della morte del pontefice non fu possibile applicare questa disposizione nelle monete di Alessandro VII, ma solo in seguito.
Da sinistra a destra: ducato in oro ungherese (mm 23 )a nome di Mattia Corvino (1458-1490), il sovrano che concesse all’architetto bolognese Aristotele Fioravanti il diritto di coniare monete; un 5 baiocchi autentico in buon argento ed uno in rame argentato a nome di papa Gregorio XVI Cappellari (mm 18)
Sino ad ora si è discusso di falsari che agirono a Bologna o fuori Bologna, ma adesso vorrei ridare reputazione ad un famoso personaggio bolognese che il Malaguzzi Valeri, nel suo libro sulla zecca di Bologna del 1901, accusa ingiustamente di essere un falsario di monete per una notizia che trovò nell’Archivio di Stato. Si tratta del famoso architetto Aristotele Fioravanti che nella seconda metà del XV secolo raggiunse una fama internazionale per aver spostato di parecchi metri, con un sistema di rulli, la Torre della Magione che restringeva Strada Maggiore, trasformandola poi nel campanile di una chiesa (la torre venne abbattuta nel 1825). Il Fioravanti è famoso anche per aver contribuito alla costruzione del Cremlino di Mosca.
Il governo bolognese, orgoglioso del proprio concittadino lo aveva eletto architetto del Comune con uno stipendio fisso, anche se spesso Aristotele era chiamato all’estero per interventi ingegneristici complessi. Quando il pontefice lo chiamò a Roma nel febbraio del 1473 il governo bolognese lo autorizzò al viaggio mantenendogli il suo solito emolumento. Dopo pochi mesi giunse a Bologna una notizia incredibile: il Fioravanti era stato arrestato per aver falsificato monete. Sull’onda dello sdegno il governo lo privò dell’incarico di architetto comunale (questo è il documento su cui il Malaguzzi Valeri fonda la sua accusa). L’origine di questo episodio risaliva al 1467 quando Fioravanti era stato chiamato dal re d’Ungheria, Mattia Corvino, per costruire castelli e ponti con cui arginare l’avanzata turca. Come segno di riconoscenza il re lo aveva creato cavaliere del Regno d’Ungheria con il privilegio, non concesso ad altri, di battere moneta con il proprio ritratto. Quando Aristotele si recò a Roma usò alcune di queste monete e venne accusato di essere un falsario. Lo stesso re d’Ungheria fu costretto ad intervenire per scagionarlo dall’accusa. Comunque, oggi non si conosce alcuna moneta con il ritratto od il nome del Fioravanti ma sembra che egli abbia prodotto anche altre monete. Infatti lo zar di Russia, dal quale era stato chiamato per svolgere la sua attività di architetto, gli avrebbe affidato anche l’incarico di zecchiere. Secondo alcune fonti esistono monete russe sulle quali è riportato il nome di Aristotele, naturalmente secondo la dizione russa ed in alfabeto cirillico, ma non è stato possibile rintracciare la loro immagine o trovare la conferma della loro esistenza.
Naturalmente, gli episodi di falsificazioni monetarie a Bologna furono ancora tanti. L’ultimo noto a chi scrive risale a mezzo secolo fa quando a Casalecchio di Reno venne prodotto un gran numero di sterline false. Dall’articolo pubblicato a suo tempo dal quotidiano “Il Resto del Carlino”, uno degli accusati dichiarò che le loro sterline erano perfettamente identiche a quelle inglesi, anche come lega, e che le producevano per farne pendenti di braccialetti. Non so se ciò corrispondesse a verità, ma la notizia mise in allarme la Royal Mint che inviò una commissione per indagare. Anche se a chi scrive non è noto come finì il processo, una cosa è certa: nessuno fu torturato o condannato a morte per quel reato. Evidentemente i tempi erano cambiati, anche se certi reati sembrano eterni.