(di Eleonora Giampiccolo | Da “Historia Mundi” n. 6, 2017, pp. 38-63 | prima parte) | Il 6 agosto 1623 saliva al soglio pontificio il cardinale Maffeo Barberini con il nome di Urbano VIII. A quel tempo ricopriva la carica di incisore camerale Giacomo Antonio Mori, milanese di origine, il quale, a causa dei suoi problemi di salute aveva chiamato a Roma un suo lontano parente per parte di madre, Gaspare Mola. Costui era nato tra il 1573 e il 1575 a Coldriè nella frazione di Breglio da Donato Domenico, insignito di un certo grado di nobiltà, e Isabella (il cui cognome risulta sconosciuto). Ebbe due sorelle Dorotea, morta durante la peste del 1631, e Prudenzia (qualcuno gli attribuisce anche un fratello). Fin da bambino aveva manifestato una spiccata attitudine nei confronti dell’arte edera stato ben presto mandato a Milano dove aveva appreso l’arte di incider conii e dove aveva intrapreso l’attività di commerciante d’arte.
Dopo un breve apprendistato presso la zecca imperiale di Milano, senza che se ne conosca la motivazione ufficiale, si era trasferito a Firenze, ove entrato nelle grazie del granduca di Toscana Ferdinando I, era stato nominato orefice privato e aveva iniziato a lavorare come incisore di conii nella zecca locale: qui aveva realizzato, tra le altre, la splendida medaglia che riproduce il gruppo marmoreo di “Ercole e Nesso” realizzato dal Giambologna. All’inizio del XVII secolo, però aveva già lasciato Firenze: datata 3 ottobre 1605 è una nota che lo vuole attivo con la sua bottega a Milano “sotto il segnio del beatto Carlo” e un altro documento del 1607 ci illumina sul rapporto lavorativo che intratteneva con il duca Carlo Emanuele, per il quale incideva medaglie, ma dal quale era stato anche incaricato della compravendita di antichità”. Nel 1609 ritornò a Firenze e proprio durante il suo secondo soggiorno fiorentino, la sua fama raggiunse la corte dell’allora pontefice Paolo V: nella zecca fiorentina aveva, infatti, realizzato una medaglia celebrativa di san Carlo Borromeo, “certo ben fatta e molto naturale”, che tanta ammirazione aveva suscitato nel pontefice.
Il gesuita Lelio Tolomei in una lettera a Belisario Vinta, segretario di Stato del granduca di Toscana datata il 15 febbraio 1611 scriveva: “Non lassarò di dire a V.S. che havendo presentatoli (al papa Paolo V) a mio nome una medaglia d’oro di S. Carlo, certo ben fatta e molto naturale, la lodò il papa grandemente e mi domando chi era l’autore. Risposi, che si chiama “Gasparo Mola Comasco, zecchiere costi di S. A. (cioè del Granduca di Toscana). Disse che è un valentuhuomo, et mostrò che gradirebbe qualche cosa di così eccellente autore. Et in Roma queste medaglie di S. Carlo sono piaciute grandemente”. Tuttavia, la zecca fiorentina non era rivelata un ambiente di lavoro facile; egli, infatti, “trovò qualche opposizione ne’soprantendenti alla Zecca che volevano obbligarlo a far cosa donde sarebbe provenuto discredito al di lui nome”. Il Mola, in una lettera al suo protettore Belisario Vinta, aveva lamentato il fatto che i suoi superiori diretti gli avessero ordinato di utilizzare, per la realizzazione di alcuni testoni, i conii preparati da Niccola Colobbo detto il Tedesco, “poco pratico et di manco dissegno, come per prova s’è veduto et con poca riputazione della zeccha”.
Tra il 1613 e il 1614 aveva lasciato nuovamente Firenze per peregrinare nel Nord Italia, lavorando come incisore per il duca di Mantova Ferdinando Gonzaga, di Guastalla Ferrante II e di Modena Cesare d’Este, per poi ritornarvi continuando a lavorare per il Granducato. Verso il 1620 si era recato nuovamente a Torino, lavorando per qualche tempo e con un contratto a cottimo come incisore presso la zecca di Caselle. Il suo peregrinare per le varie corti della penisola venne interrotto, alla fine del 1623, dalla chiamata del Mori che lo invitava a raggiungerlo a Roma per lavorare insieme nella zecca pontificia, che era la più prestigiosa d’Europa ed era il sogno di qualsiasi incisore. Non si sa se accolse subito l’invito dello zio oppure se venne a Roma dapprima per un breve periodo; sappiamo tuttavia, che Gaspare Mola realizzò questo sogno alla fine del gennaio 1625 (si veda il chirografo dell’8 gennaio 1625, con il quale il pontefice autorizzava il pagamento al Mola di 100 scudi per sostenere le spese di trasferimento della famiglia), alla morte del Mori, quando fu incaricato “pro tempore” dell’incisione di conii per medaglie e monete papali. Il Mola, che continuò a tener bottega di fronte alla Chiesa dei Santi Celso e Giuliano, che era già stata del Mori, fu un eccellente ritrattista come del resto è dimostrato da tutti i ritratti da lui realizzati per celebrare i signori per i quali aveva lavorato.
Fig. 1 | Medaglia annuale del II anno di pontificato (1625) celebrativa dell’Anno Santo del 1625
Ma nella città dei papi, grazie al clima effervescente e intriso di barocco, ebbe modo di entrare in contatto con i più grandi architetti dell’epoca, tra cui Gian Lorenzo Bernini. E da qui iniziò anche a dedicarsi, con successo, alla realizzazione di medaglie architettoniche, rappresentando in medaglia ciò che l’architetto e scultore napoletano andava costruendo. La prima fattura intestata al nuovo incisore camerale riguardava il pagamento della medaglia della Lavanda e dell’annuale del II anno di pontificato che furono realizzate nel 1625 e che sarebbero state le prime di una lunga serie, visto che il Mola avrebbe realizzato medaglie per Urbano VIII fino al 1639!
La prima annuale del Mola celebrò il giubileo del 1625 indetto da papa Barberini il 29 aprile 1624 con la bolla “Omnes gentes plaudite minibus”. La medaglia reca, al dritto, il busto del pontefice a destra circondato dalla legenda VRBANVS VIII PONT MAX AN II e, al rovescio, non più la solita e ormai sfruttata scena del papa che apre la Porta Santa, ma quest’ultima già aperta ed il pontefice che la varca in processione, mentre tutt’intorno stanno in ginocchio e in piedi i pellegrini; il tutto circondato dalla legenda HOMINIBVS BONAE VOLVNTATIS. La suddetta medaglia presenta due varianti di dritto: nella prima, il pontefice indossa un piviale decorato con l’icona di san Pietro tra arabeschi, nella seconda, invece, il piviale celebra uno degli avvenimenti più importanti di quell’anno giubilare che vide l’arrivo a Roma di oltre centomila pellegrini ovvero la canonizzazione, avvenuta il 15 maggio 1625, della regina Elisabetta del Portogallo, la cui icona è rappresentata sulla fascia decorata del paramento papale circondata dall’iscrizione S. ELIS. LUSIT REGINA (Fig. 1). In ragione della decorazione, questa seconda variante potrebbe essere considerata a tutti gli effetti la vera annuale, a differenza di quanto riportato nel “CNORP” (2007, p. 161).
Fig. 2 | Scudo d’oro celebrativo dell’Anno Santo del 1625
Il Mola fu anche il primo incisore a firmare le monete e proprio in occasione del giubileo realizzò uno scudo d’oro firmato G. M. (Fig. 2), che reca, al dritto, il busto del pontefice con piviale decorato con fiori e una rosa e legenda VRBANVS VIII PONT M A II; al rovescio, viene rappresentata la porta santa con cimasa a tre centine e il volto santo e la legenda intorno QVI INGREDITVR SINE MACVLA. Un elemento accomuna queste due emissioni e cioè la raffigurazione della Veronica, che compare sia nel razionale del pontefice sull’annuale sia nel vano della Porta Santa, quasi appesa tra le colonne che sorreggono la trabeazione, sulla moneta. Proprio in occasione del giubileo del 1625 per scongiurare qualsiasi illazione circa la mancanza della reliquia (reliquia che si diceva addirittura strappata dai Lanzichenecchi durante il sacco di Roma del 1527), il pontefice diede un rinnovato impulso al culto del Volto Santo, cui era tanto devoto, che volle che una copia, fatta fare da Gregorio XV, fosse esposta nella Chiesa del Gesù e concesse “il Santissimo Giubileo et Indulgenza plenaria, come se si visitassero trenta volte le quattro chiese a ciò destinate, a tutti quelli che si comunicheranno l’ultima domenica di ottobre di quest’anno 1625 nella Chiesa del Gesù”.
Della medaglia annuale dell’anno III di pontificato che doveva celebrare la chiusura del Giubileo conosciamo il numero dei pezzi d’oro (239) e di quelli d’argento (426), ma non ci è noto il soggetto del rovescio. E poiché durante il Giubileo furono emesse numerosissime medaglie, non possiamo stabilire con assoluta certezza quale essa sia. Alcune considerazioni indirette, comunque, ci aiutano ad individuarla con una certa sicurezza. Quello del 1625 non fu un giubileo tranquillo; non solo per la situazione internazionale, essendo l’Europa ormai da sei anni travagliata dalla Guerra dei Trent’anni, ma anche per la peste che, partita dall’Italia meridionale, cominciò a mietere le sue vittime anche tra i pellegrini giunti a Roma, tanto che fu necessario allestire un lazzaretto fuori Porta san Giovanni. Inoltre, un’inondazione del Tevere rese impraticabile la basilica di san Paolo e causò nella zona circostante la diffusione della malaria. Il papa fu allora costretto a chiudere la Basilica e a sostituirla per le funzioni relative al Giubileo con quella di Santa Maria in Trastevere. Soltanto alla fine di ottobre, quando la situazione si ristabilì, la Basilica di san Paolo riprese il suo ruolo di basilica giubilare.
Ma tra tante circostanze più o meno negative, la questione irrisolta della Valtellina per il controllo della quale Francia e Spagna, due nazioni entrambe cattoliche, erano in aperto contrasto, preoccupava molto il pontefice, il quale, in pieno Anno Santo, decise di inviare il proprio legato, il cardinale Francesco Barberini, in Francia per trattare con Richelieu allo scopo di favorire un accordo tra le due potenze. Si sperava di arrivare alla pace tra Francia e Spagna, senza che la parte francese facesse concessioni ai Grigioni (protestanti) della Valtellina e facendo in modo che il controllo della situazione fosse affidato direttamente al papa.
Fig. 3 | Medaglia annuale del III anno di pontificato (1626) celebrativa della chiusura dell’Anno Santo
Sebbene il soggiorno a Parigi del cardinale delegato non avesse avuto l’esito sperato, il pontefice, che probabilmente aveva avuto sentore che si sarebbe ben presto raggiunto un accordo, non smetteva di incoraggiare tutti alla pace come dimostra l’emissione di una medaglia che può anch’essa considerarsi giubilare per la legenda del suo dritto VRBANVS VII PONT MAX AN IVB. Al rovescio, essa rappresentala personificazione della pace identificata dalla legenda TRANQVILLITAS REDVX. Tale medaglia non è firmata, ma quasi sicuramente fu realizzata dal Mola. Anche se il ruolo del Barberini, a quanto pare, fu solo marginale nelle trattative che seguirono il suo rientro a Roma avvenuto il 17 dicembre 1625, certo è che alla fine la pace fu raggiunta e fu ratificata il 5 marzo 1626 a Mònzon, in Aragona.
Un evento così importante non poteva non lasciare traccia sull’annuale del III anno, il 1626, che tra l’altro avrebbe dovuto anche celebrare la fine dell’Anno Santo. Tra le due medaglie che commemorano la chiusura della Porta Santa e che sono citate in un elenco dell’età di Alessandro VII, riguardanti i rovesci delle medaglie ufficiali di Urbano VIII, una sola sembra alludere ad entrambi gli avvenimenti e cioè quella che mostra al dritto, il busto del pontefice a destra, vestito di piviale decorato con le icone dei santi Pietro e Paolo e incorniciato dalla legenda VRBANVS VIII PONT MAX A III e, al rovescio, il papa circondato dalla corte pontificia nell’atto di chiudere la Porta Santa, scena questa incorniciata dalla legenda PONAT FINES SVOS PACEM chiaramente evocativa della pace qualche mese prima ratificata (Fig. 3).
Fig. 4 | Medaglia annuale del IV anno di pontificato (1627) celebrativa della consacrazione della Basilica Vaticana (variante a)
Il 18 novembre 1626, centoventi anni dopo l’inizio della costruzione della Basilica Vaticana adopera di Giulio II e 1300 anni dopo quella della basilica costantiniana, ad opera di papa Silvestro, il pontefice si recò insieme ai cardinali nell’atrio di San Pietro dove fu elevato un trono. Su questo Urbano VIII stesso procedette a consacrare le dodici croci di mosaico rosso destinate alle pareti della basilica. Proprio questo momento è immortalato nella medaglia annuale del IV anno di pontificato emessa il 29 giugno del 1627 (Fig. 4), dove si vede, al rovescio, il pontefice rappresentato nell’atto di benedire una delle croci. Ma, poiché “mentre si facevano le medaglie d’oro e di argento suddette si ruppe le staffe et il ferro grosso della matrevita” e anche il conio del rovescio, il Mola fu costretto a realizzarne uno nuovo e ad aggiungere al torchio altre due staffe di ferro. Data la fretta con il quale il nuovo conio era atteso, il Mola rappresentò sul nuovo rovescio una delle dodici croci la cui benedizione aveva avuto così tanta importanza nel corso della cerimonia (Fig. 5).
Fig. 5 | Medaglia annuale del IV anno di pontificato (1627) celebrativa della consacrazione della Basilica Vaticana (variante b)
La medaglia annuale del quinto anno di pontificato (1628) celebrava le nuove fortificazioni di Castel Sant’Angelo rappresentate nel rovescio della stessa e circondate dalla legenda INSTRVCTA MVNITA PERFECTA. I lavori voluti dal pontefice consistevano nell’allargamento dei fossati, nel rafforzamento delle mura e dei bastioni, la realizzazione di un ampio fossato tutt’intorno e la costruzione di magazzini, caserme e anche una fabbrica di cannoni. Tutto ciò comportò l’abbattimento del torrione che era stato riprodotto nella medaglia di Alessandro VI, attribuita al Caradosso. Il papa nel 1625 e nel 1627 ispezionò personalmente i lavori. Nonostante la legenda faccia riferimento ad una costruzione PERFECTA, da un avviso di Roma del 4 agosto 1628 che citava l’emissione di questa medaglia, si apprende che i lavori non erano stati ancora completati alla data di emissione della stessa.
Fig. 6 | Medaglia annuale del VII anno di pontificato (1630) celebrativa della costruzione del Forte Urbano a Castelfranco Emilia
La medaglia annuale del settimo anno di pontificato, emessa nel 1629 per celebrare la costruzione del Forte Urbano a Castelfranco Emilia, ad un ritratto del papa circondato dalla legenda VRBANVS VIII PON MAX A VII associa un rovescio nel quale viene rappresentato san Petronio tra le nubi con la città di Bologna nella mano destra mentre osserva dall’alto il Forte Urbano: il tutto incorniciato dalla legenda SECVRITAS PVBLICA (Fig. 6).
Fig. 7 | Medaglia annuale dell’VIII anno di pontificato (1631) celebrativa della devoluzione del Ducato di Urbino
L’avvenimento più importante del 1630 fu la devoluzione del Ducato di Urbino allo Stato della Chiesa e come tale fu celebrato dalla medaglia annuale di quell’anno. Nel 1623 il principe d’Urbino Federico Ubaldo della Rovere, figlio di Francesco Maria II, che era stato signore di Urbino dal 1574, ed erede al trono, morì prematuramente all’età di 18 anni. Il ducato ritornò nelle mani di Francesco Maria, il quale se in un primo momento aveva cercato di rendere la nipote Vittoria, erede di tutti i beni di casa della Rovere, alla fine aveva deciso di fare una donazione “inter vivos” del suo Ducato alla Chiesa. Il 28 aprile 1631, a Castel Durante si spense l’ultimo duca di Urbino e il pontefice poteva celebrare l’AVCTA AD METAVRVM DITIONE, sia sulla medaglia annuale dell’VIII anno di pontificato che presenta, al dritto, il busto del pontefice con piviale arabescato circondato dalla legenda VRBANVS VIII PON MAX A VIII e, al rovescio, la personificazione della città di Roma che tiene nella mano sinistra la Basilica vaticana (Fig. 7), sia sui testoni di quello stesso anno con lo stemma del pontefice, al dritto, circondato dalla legenda VRBANVS VIII PONT M A VIII e con lo stesso tipo utilizzato per la medaglia al rovescio.