(di Fiorenzo Catalli) | Riprendendo la nostra analisi sul valore del denaro nel mondo romano, tra le tante fonti apprendiamo ad esempio che una partita di legname (non è indicata la quantità) era stata pagata 1985 sesterzi di bronzo; un mulo venduto il 28 maggio del 15 d.C. per la somma di 520 sesterzi. In questa epoca 4 sesterzi di bronzo equivalgono ad un denario d’argento e dunque il mulo è costato 130 denari. Un buon mulo vale quanto uno schiavo: al mercato di Pompei, nel 61 d.C., due giovani schiavi vennero pagati 725 sesterzi l’uno (CIL IV, 3340), ma uno schiavo adulto sulla stessa piazza è costato 2650 sesterzi. Evidentemente, il prezzo è legato direttamente all’aspetto fisico, alle condizioni di salute e alle capacità della persona. Lo schiavo Daphnis, un “grammaticus”, ovvero un filologo, un critico di opere letterario, secondo la testimonianza di Plinio (“Nat. Hist.”, VII, 128), fu pagato ben 700.000 sesterzi. Secondo la testimonianza di Seneca (“Epist.” 27, 5-7), un certo Calvisius pagò 100.000 sesterzi ciascuno un gruppo di undici schiavi, ognuno dei quali era in grado di declamare a memoria l’opera di un poeta greco.
Tesoretto di denari imperiali romani in argento
Per tornare a Iucundus, di cui si è parlato nella prima parte, quasi la metà degli affari trattati con la sua intermediazione riguardava cifre comprese fra 1000 e 5000 sesterzi e circa un quarto tra 5000 e 10.000 sesterzi. Pochi i contratti che superano questa ultima cifra, ed ancor meno quelli con importi inferiori a mille sesterzi. Uno dei commentatori moderni degli affari di Iucundus ha osservato che in fondo Iucundus operava in un ambiente in cui la moneta appare relativamente scarsa, o meglio che lui si occupava di transazioni di livello medio-basso. Prestava, come è dimostrato nel suo archivio, denaro per consentire di arrivare al successivo raccolto. Il dato sembra coincidere con la documentazione archeologica raccolta durante gli scavi della città, con il ritrovamento di gruzzoli custoditi nelle abitazioni o con le somme portate in salvo dagli abitanti in fuga dall’eruzione del Vesuvio e recuperate addosso ai resti dei fuggitivi. In soli cinque casi si tratta di somme superiori ai 4000 sesterzi mentre i casi più frequenti testimoniano cifre comprese tra 1000 e 3000 sesterzi.
Il tasso di interesse legale di cui abbiamo notizia tra il primo secolo a.C. e il primo secolo d.C. era dell’1% mensile, ovvero del 12% annuo. Interessi ben maggiori erano dichiarati “usurae illecitae” ma non per questo non praticati. A tale proposito abbiamo precise testimonianze nei graffiti scoperti all’interni di abitazioni e botteghe di Pompei.
Sulla parete di una taberna pompeiana è inciso: “Non(is) Feb(ruariis) (Vettia accepit) a Faustilla X (denarios) XV (quindecim) usu(ra) a(sses) VIIII (novem)” (ossia, “Sl 5 febbraio Vettia prese da Faustilla 15 denari con un interesse di 9 assi”). Un denario vale 16 assi, 15 denari valgono 240 assi, l’interesse mensile è di 9 assi con un interesse annuo di 108 assi, pari al 45% (CIL IV, 4528b; Canali-Cavallo, Graffiti; Della Corte, Case, n. 126b).
Ancora sulla parete della stessa taberna è il graffito: “IV (quarto die ante) idus feb(ruarii) Vettia (accepit a me?) X (denarios) XX (viginta) usu(ra) a(sses) XII (duodecim)” (ossia, “Il quarto giorno prima delle idi di febbraio – il 10 febbraio – Vettia prese da me 20 denari con l’interesse di 12 assi”). Un denario equivale a 16 assi, 20 denari a 320 assi per un interesse mensile di 12 assi e un interesse annuo di 144 assi, pari al 45% (CIL IV, 4528a; Canali-Cavallo, Graffiti; Della Corte, Case, n. 125a).
Graffito da Pompei (CIL IV, 4528a,b) e denario a nome di Tito del 74-76 d.C. con ritratto e Giove a figura intera
Ancora da Pompei proviene il seguente graffito: “Idibus Iulis inaures postas(=positas) ad Faustilla(m) pro X (denariis) II (duobus) usura(m) deduxit aeris assem ex sum(ma) XXX (tricesimam accepisse)” (ossia, “Alle idi di luglio (il 15 luglio) un paio di orecchini presi in pegno da Faustilla per 2 denari; ne ha dedotto un interesse di un asse; ha trattenuto un trentesimo della somma prestata”) (CIL IV, 8203). Due denari valgono 32 assi, con un interesse mensile di un asse ed un interesse annuo del 37,5% (CIL IV 8203; Della Corte, Case, 677; Varone, Le voci, p. 58 nota 4).
L’usura illecita non era disdegnata neppure da personaggi famosi. Cicerone, proconsole in Asia, in una lettera al suo amico Attico (“Ad Atticum”, VI, 1, 3 ss.) datata 13 febbraio del 50 a.C., racconta di Bruto, uno dei congiurati, che non personalmente ma attraverso due prestanome aveva concesso un prestito agli abitanti di Salamina di Cipro con un interesse del 48%. Per riottenere la somma Bruto aveva inviato un reparto di cavalleria allo scopo di intimorire i debitori. Cicerone, che aveva sostituito Bruto nell’incarico, fa ritirare il reparto militare, convoca creditori e debitori, ricorda che una precedente “Lex Gabina” vietava ai provinciali di contrarre debito con Roma, rifiuta la richiesta di Scapzio, uno dei comandanti della cavalleria, di imporre il tasso richiesto. Nonostante il rifiuto di Scapzio, gli abitanti di Salamina ottennero di depositare la somma dovuta, aumentata dell’interesse del 12% annuo composto, in un tempio della città per interrompere la maturazione degli interessi.
Le vincite al gioco – altro ambito in cui il denaro è protagonista nel mondo romano – possono considerarsi rischi calcolati. Un vincitore di dadi annuncia la sua vincita di ben 855 denari e mezzo, giocando a dadi a Nocera, senza barare (CIL IV, 2119). Nerone faceva puntate non inferiori a 400 sesterzi (Svetonio, “Nero”, 30) mentre Augusto in una sola volta aveva perso 20.000 sesterzi (Svetonio, “Augustus”, 71).
Pedina e dado da gioco in osso di epoca romana e scena con giocatori di dadi dall’Osteria della Via di Mercurio a Pompei
La società romana era dominata dai possessori di grandi patrimoni che potevano permettersi di vivere con le loro rendite, senza lavorare ma controllando la gestione dei propri possedimenti o delle loro imprese e vigilando sulla commercializzazione dei rispettivi prodotti.
La fortuna di Narciso, un liberto dell’imperatore Claudio, era stimata in 400 milioni di sesterzi (“Dio”, LX, 34) mentre il patrimonio di una persona ricca poteva comprendere terre, bestiame, residenze di lusso, stabili in affitto, schiavi di ogni tipo, oggetti preziosi, denaro liquido ma anche crediti da riscuotere. Plinio il giovane sottolinea il carattere fondiario del suo patrimonio ma non nasconde di aver dato denaro in prestito per interesse. Secondo Cicerone, i redditi di Catone il Censore derivavano soprattutto dall’agricoltura ma anche dalla concessione di prestiti ad interesse. Svetonio rimprovera l’imperatore Vespasiano di essersi dedicato a forme disonorevoli di speculazione, acquistando merci all’ingrosso per rivenderle più care al dettaglio. Non dobbiamo vedere in queste parole di Svetonio un giudizio negativo sull’attività commerciale in genere ma piuttosto verso una speculazione che era giudicata al limite dell’accapar-ramento.
Il tema delle concessioni di prestiti in denaro è molto diffuso nella letteratura dell’alto impero. Il dibattito, già in età ciceroniana, non era interessato a giudicare i patrimoni e i modi per mantenerli ed accrescerli, ma riguardava piuttosto essenzialmente la concussione e la corruzione elettorale. E ciò nonostante alcuni giudizi negativi che possiamo registrare. Publio Suillio Rufo, genero di Ovidio, accusava Seneca (la notizia proviene da Tacito e Cassio Dione) non tanto di prestare denaro ad interesse quanto di impoverire l’Italia e le provincie praticando l’usura in modo sfrenato. Il patrimonio di Seneca era stimato in 300 milioni di sesterzi (Tacito, “Ann.”, XIII, 42). Ma lo stesso Suillio, inizialmente accusato di corruzione, fu tristemente famoso durante il regno di Claudio per le sue delazioni che portarono alla rovina molti eccellenti nomi della società romana e fu, di conseguenza, esiliato alle Baleari per volere di Seneca. Alcuni erano senza dubbio più onesti di altri. Niente di più. “Vuoi diventare ricco? Fai l’avvocato!” consigliava un ricco amico al poeta Marziale (“Epigr.”, I, 17) che gli aveva chiesto un prestito di 20.000 sesterzi.
Sarcofago di un avvocato dell’antica Roma con scene di discussione di una causa
E ciò nonostante il fatto che una vecchia legge romana, la lex Cincia, del III secolo a.C., vietasse di ricevere doni: “Nessuno accetti, per sostenere una causa, un dono o del denaro” (Tacito, “Annales”, XI, 5). Ma si trattava di una “lex imperfecta” perché, pur individuando esattamente il reato, non stabiliva pene per i trasgressori o l’invalidità delle donazioni. Cicerone è ben noto che non accettasse doni. Eppure riuscì a costituire un discreto patrimonio, lui di origini modeste, ancor prima di essere inviato a governare la provincia d’Asia. Lui stesso si vantava di aver ricevuto legati per un totale di 20 milioni di sesterzi e forse anche prestiti che tacitamente non vennero restituiti. Negli anni del regno di Augusto fu finalmente stabilito che la sanzione per gli avvocati trasgressori sarebbe stata pari a 4 volte la somma ricevuta. Sta di fatto che, sotto il regno di Claudio, gli avvocati furono autorizzati a ricevere 10.000 sesterzi e solo in caso di superamento della somma gli stessi potevano essere accusati di concussione (Tacito, “Annales”, XI, 7). Nell’Editto dei prezzi di Diocleziano venne fissato un tetto massimo alle retribuzioni degli avvocati stabilendo 250 denari per le formalità dell’istanza e 1000 denari per la procedura fino al verdetto.
La voce ricorrente è che i medici a Roma non conducessero proprio una vita agiata se Plauto (Rud., 1305) gioca sulle parole “medicus-mendicus”, se Marziale riferisce di medici obbligati a fare un secondo lavoro, un chirurgo faceva il becchino (“Epigr.”, I, 30) mentre un oculista era diventato addirittura gladiatore (“Epigr.”, VIII, 74). Ma forse si tratta solo di battute o forse no!
Asse in bronzo di Antonino Pio del 215 d.C. con al rovescio Esculapio, divinità tutelare dei medici e della medicina
Certo è che Cesare si era dato molto da fare per facilitare l’accesso al diritto di cittadinanza romana ai medici stranieri e gli imperatori a più riprese avevano confermato l’immunità e i privilegi loro accordati. Per alcuni di loro la ricchezza inizia con il regno di Augusto. A parte Antonio Musa, il medico personale di Augusto, al quale lo stesso imperatore aveva donato in segno di gratitudine una somma di 400.000 sesterzi, che gli permise di entrare nella classe dei cavalieri, i medici di corte, secondo Plinio, sono assimilati nello stipendio agli alti funzionari guadagnando fino a 250.000 sesterzi l’anno.
In genere gli insegnanti erano mal pagati e tenuti in nessun conto. Al loro sostentamento pensavano i genitori degli alunni: alle idi di ogni mese, dice Orazio (“Sat.”, 1, 6, 75), i genitori consegnavano al maestro la somma di 8 assi. Calcolando una trentina di allievi, lo stipendio non superava 240 assi al mese corrispondente a 15 denari al mese, ben poca cosa se paragonato allo stipendio del legionario nella stessa epoca. La situazione dovette migliorare durante l’Impero, in particolare per gli insegnati di scuola secondaria e superiore. L’editto dei prezzi di Diocleziano, in una fase in cui maestri, professori erano stipendiati dallo Stato o dalla città, prevedeva uno stipendio di 50 denari al mese per alunno per il maestro di scuola primaria, di 75 denari per il maestro di stenografia, di 200 denari per il professore di geometria. Sembra comunque che non dovesse ancora trattarsi di uno stipendio elevatissimo in rapporto al costo di un barile di grano, 100 denari, o in rapporto alla paga giornaliera di un operaio qualificato, muratore o carpentiere. Va inoltre specificato che il denario del Basso Impero (utilizzato solo come moneta di conto) aveva decisamente un più basso potere di acquisto del denario di prima età imperiale.
Bassorilievo do epoca romana con scena scolastica
Nei primi secoli della Repubblica prima dell’istituzione del soldo militare, il bottino costituiva per i soldati l’unica ricompensa del loro lavoro. Livio ricorda che lo “stipendium” militare fu istituito per la prima volta in occasione della presa di Terracina, ma in realtà questo provvedimento fu votato in previsione della lunga guerra con l’etrusca Veio, conquistata nel 396 a.C. L’istituzione del soldo militare ebbe l’effetto di far scattare un nuovo tipo di reclutamento, quello volontario. Esisteva anche il “salarium” che costituiva una indennità forfettaria annua versata ai militari per l’acquisto di una razione di sale. Il termine “salariati” passò poi a designare i soldati di infimo rango che ricevevano la corresponsione in denaro.
Ma parte del denaro ricevuto dallo Stato veniva restituito per il pagamento del vestiario e del vitto. A più riprese si è voluto intervenire per sopprimere le trattenute. Gaio Gracco fece votare una legge che stabiliva che le spese per l’abbigliamento non dovessero essere più trattenute sullo stipendio. Ma nel 14 d.C. il soldato ancora pagava questa voce.
Aureo di Settimio Severo (per Emesa o Alessandria) emesso nell’anno 193 d.C. con ritratto e al rovescio aquila ed insegne legionarie
All’inizio i soldati furono pagati in assi di bronzo e per un trattamento di favore quando il denario, nel corso del II secolo a.C., fu cambiato non più a 10 ma a 16 assi, ai militari fu concesso il vecchio cambio. Nella metà del II secolo a.C. un legionario percepiva 120 denari d’argento annui (Polibio VI, 39, 12). Con Cesare (Svetonio, “Divus Iulius”, 265) ed Augusto (27 a.C.-14 d.C.) la paga annua venne elevata a 225 denari. Con Domiziano (81-96 d.C.) la paga raggiunse quota 300 denari (Svetonio, “Domitianus”, 7, 4) ma lo stesso imperatore vietò che un soldato potesse depositare più di 1000 sesterzi (250 denari) presso la cassa della legione. Un provvedimento del genere si spiega se inteso ad impedire che i comandanti della legione potessero preparare una rivolta utilizzando i depositi dei militari. Settimio Severo (197-211 d.C.) fissò la paga del soldato a 459 denari annui ma soprattutto nel suo testamento lasciò ai figli un prezioso consiglio: “Siate uniti […] arricchite i soldati e non curatevi del resto” (Cassio Dione, LXXVI, 15,2). Era già evidente in quegli anni che le fortune degli imperatori erano tutte nelle mani dei soldati.
Medaglione di Giovanni da Cavino (XVI secolo) al tipo di un sesterzio di Gabla con al rovescio scena di “Adlocutio” dell’imperatore all’esercito
Con Caracalla la paga sale a 600 denari e a 1200 antoniniani (la nuova moneta d’argento creata da Caracalla). Alla fine del III secolo d.C., durante il regno di Diocleziano (285- 305 d.C.) un legionario percepiva 1800 nummi equivalenti a 360 argentei. L’argenteo era la nuova moneta in argento creata da Diocleziano paragonabile più o meno al vecchio denario. Infine sembra che durante il regno di Valentiniano I (364- 375 d.C.) la paga del soldato abbia raggiunto quota 5 solidi aurei annui mentre un cavaliere ne percepiva 9.
Oltre lo stipendio, versato in tre o quattro rate, vi era poi un premio di ingaggio, il “viaticum”, che consentiva alle reclute di raggiungere la propria unità corrispondente 75 denari nell’alto Impero. Il Codice di Teodosio, del 375 d.C., fissa il suo ammontare a 6 solidi aurei. Ma vi sono anche le gratifiche in denaro frequenti durante l’Impero. Premi in denaro venivano assegnati anche in occasione della nomina di un nuovo imperatore e in generale tutte le volte che l’imperatore voleva l’appoggio dei soldati. All’assemblea dei soldati che lo acclamavano imperatore Claudio promise 15.000 sesterzi a ciascuno, ovvero 3750 denari, il corrispondente di dieci anni di paga (Svetonio, “Claudius”, 10). Il pensiero di accontentare i soldati fu costante presso gli imperatori del III secolo d.C.
Argenteo di Massimiano (286-305 d.C.) per Ticinum e solido aureo di Teodosio (383-388 d.C.) per Costantinopoli
Lo stesso Diocleziano dichiarava chiaramente nella premessa del suo Editto dei prezzi di voler salvaguardare soprattutto la paga dei soldati: “Chi può ignorare, infatti, che l’audacia insidiosa contro l’interesse pubblico, ovunque la salvezza comune di tutti richiede l’invio dei nostri eserciti, non solo nei villaggi o nelle città ma in ogni strada, muove contro con proposito di confisca e chiede prezzi delle merci aumentati non già di quattro o otto volte, ma tali che la lingua umana non ha risorse per esprimere l’entità del prezzo e del fatto? E che infine, talvolta, con l’acquisto di un solo oggetto, il soldato viene privato del suo stipendio e del suo donativo? E che tutti i contributi del mondo intero per mantenere gli eserciti devono piegarsi alla detestabile brama di guadagno di questi uomini rapaci? Così che i nostri soldati sembrano dare con le loro mani il prodotto del loro servizio militare e le fatiche che hanno sopportato a tutti gli incettatori di tutto, col risultato che i predatori dell’economia pubblica rubano di giorno in giorno più di quanto sanno possedere.”
Dopo tanti denari viene da pensare ai “trenta denari” più famosi nella storia dell’umanità, quelli pagati a Giuda per il suo tradimento. Ma si è trattato veramente di denari di argento romani? Certamente no! Dei quattro Vangeli accettati dalla Chiesa solamente quello di Matteo (26; 14-16, 47-50) fa riferimento al prezzo pagato a Giuda. Ma il Vangelo di Matteo è a noi noto solo nella traduzione in greco che riferisce di “triakonta arguria” (“trenta pezzi d’argento”) e non nel testo originale in aramaico, la lingua di Gesù. Se il testo greco avesse voluto specificare denari romani avrebbe usato il termine “denaria”, presente in altre parti dello stesso Vangelo. Dunque si voleva intendere un nominale in argento diverso che non può essere neppure la dracma greca ma il siclo coniato nella vicina città di Antiochia come tetradracma, ovvero con il valore di quattro dracme.
Trenta tetradracme corrispondono a 120 dracme e, considerata a quel tempo la sostanziale equivalenza tra la dracma e il denario, ad altrettanti denari romani. Dunque Gesù fu venduto per 120 denari, o 480 sesterzi, una somma equivalente al prezzo di uno schiavo non più in giovane età (Eso 21:32; cfr. Lc 27:2-7; Mt 26:14-16, 47-50).