(di Roberto Ganganelli) | Le parole del titolo di questo editoriale non sono casuali, ma sono quelle con cui inizia ogni dispositivo emesso dalla Magistratura nel nostro Paese. Nello specifico, sono quelle con cui inizia una sentenza pronunciata pochi mesi fa dal giudice Giuseppe Monaco, del Tribunale di Parma, in merito alla vicenda occorsa ad un collezionista numismatico – a questo punto, possiamo chiamarla tranquillamente “triste disavventura” – al quale, come ad altri, un bel giorno è stata sequestrata la collezione messa insieme con sacrifici, pazienza e anni di passione con l’accusa di “essersi impossessato di numerosi reperti di interesse storico-archeologico, classificati come ‘beni culturali’ ed in particolare di vari frammenti d’anfora di età romana ed una raccolta numismatica formata da numerose monete greche oltre a varie monete in bronzo e frammenti metallici acquisiti direttamente mediante scavo clandestino, tutti reperti di notevole valore storico-scientifico”.
Il sequestro risale al 2009 ed ha origine da un’inchiesta della Procura della Repubblica di Cagliari che ha causato il rinvio a giudizio di vari collezionisti in tutt’Italia, sulla falsariga di analoghe indagini portate avanti, prima e dopo di allora, da altri tribunali. Per fortuna, dopo oltre cinque anni vissuti dal collezionista tra perizie, udienze, rinvii, relative spese e in una situazione di disagio psicologico non indifferente, il giudice Monaco ha assolto l’imputato con formula piena “perché il fatto non sussiste” ordinando “il dissequestro di tutto quanto il materiale sequestrato con l’immediata restituzione al legittimo proprietario”.
Ciò che è importante sottolineare, al di là del dato di cronaca, è tuttavia un fatto: forse per la prima volta un magistrato italiano ha affermato esplicitamente, mediante sentenza, che non esiste un nesso “automatico” – come parte del mondo archeologico statale vorrebbe far intendere – tra il possesso di monete antiche da parte di un privato ed onesto cittadino e la spoliazione – questa sì, fuorilegge – dell’immenso patrimonio disseminato tuttora sul nostro territorio nazionale.
Grazie alla perizia redatta a difesa dal professionista numismatico Luca Alagna le monete “oggetto di reato” (presunto) sono state dimostrate essere nella lecita disponibilità e possesso del collezionista dal momento che “comuni, immesse e ricollocate nel mercato da anni tramite vendite pubbliche o trattative private, in ogni caso completamente decontestualizzate da eventuali siti o ritrovamenti archeologici”. In altre parole la Magistratura ha ribaltato – con un dispositivo che, d’ora in poi, farà giurisprudenza in materia – la distorta e superficiale interpretazione del Codice dei Beni culturali e dell’ambiente (D. Lgs. N. 42/2004), sostenuta da alcuni, secondo cui ogni moneta solo perché “antica” (e parliamo, ad esempio, anche di quei bronzetti tardo-imperiali romani che in ogni negozio o mercatino si acquistano, spesso, per pochi euro) proverrebbe per forza da un sito o da un rinvenimento archeologico illegale e, pertanto, dovrebbe esser nota alle autorità e considerata a tutti gli effetti parte del patrimonio statale venendo sottratta, così, al possesso privato.
Chi scrive, nell’arco di circa vent’anni come giornalista di settore ha avuto modo di ribadire più d’una volta il concetto di “libertà nella responsabilità” che è elemento cardine e imprescindibile di un collezionismo sano: è evidente, infatti, che i “furbetti” che si approvvigionano presso tombaroli e scavatori dilettanti commettono un reato e, in ragione di ciò, vanno perseguiti (perché questa è la legge in vigore); ma è altrettanto vero – e la sentenza del Tribunale di Parma lo dimostra – che si commette un arbitrio affermando in un capo d’imputazione, con la lapidaria espressione “acquisiti direttamente mediante scavo clandestino” (relativa agli oggetti sequestrati) che ogni esemplare numismatico (soprattutto di epoca antica, ma non solo) debba ricadere per forza sotto l’ombrello della tutela – quale, poi? – dello Stato onnipresente e vorace che, peraltro, non riesce nemmeno a catalogare le centinaia di migliaia (o milioni?) di monete che da decenni o secoli conserva nei magazzini dei propri musei.
Non me ne vogliano, per queste ultime parole, gli amici archeologi e funzionari statali: nel nostro Paese esistono strutture e persone, infatti, che operano con grandi capacità scientifiche e con sano discernimento, rimboccandosi le maniche e destreggiandosi tra carenze di fondi e di possibilità operative, mantenendo in attività medaglieri di alto livello, organizzando mostre e realizzando pubblicazioni, ricerche ed incontri di studio di assoluta eccellenza. Ma è venuto il momento che il Ministero e le Soprintendenze prendano atto che i collezionisti sono protagonisti efficaci nella tutela della numismatica e non possono più essere considerati a priori solo come attori di potenziali reati e di pratiche illegali.
Collezionare è legittimo, collezionare monete antiche lo è altrettanto: dunque, l’augurio è che la serenità al settore numismatico non debba essere restituita, d’ora in poi, a colpi di sentenze, ma – come sarebbe semplice! – con una visione più aperta e realistica delle cose sia da parte sia dello Stato che – quando chiamata in causa, come in questo caso – della Magistratura.