(di Fiorenzo Catalli) | “Gli assi di Augusto, i sesterzi di Nerone, i denari di Giuda… Ne abbiamo sentito parlare in più occasioni forse senza comprendere appieno il reale significato in rapporto a ciascuna epoca che queste monete rappresentano, sicuramente senza avere alcun aggancio significativo con una realtà quotidiana in cui operavano il cittadino romano, il liberto e lo schiavo che, in tempi e in modi diversi, utilizzavano quel denaro non solo a Roma, nella grande città, ma anche nei piccoli centri delle campagne. Eppure la documentazione giunta fino a noi tra testi antichi, epigrafi e oggetti della vita quotidiana è in grado di offrire una ricostruzione significativa della vita quotidiana, per quanto limitata nelle informazioni giunte fino a noi. In particolar modo a partire dalla prima età imperiale, dal regno di Augusto, è possibile notare un forte incremento dell’uso del denaro in tutti gli atti della vita quotidiana, ipotesi ben provata dal documentato aumento di produzione della moneta stessa e dell’interesse che il primo imperatore romano ebbe nei confronti della produzione monetaria, oggetto di una specifica riforma nell’ambito più ampio dell’azione riformatrice dello Stato”.
Queste le parole che il presidente della Fondazione Antica Zecca di Lucca Alessandro Colombini appone a prefazione dello studio che segue, condotto su richiesta della Fondazione stessa e che nasce dalle ripetute domande rivoltemi da amici e curiosi della numismatica e della storia sulla corrispondenza tra sesterzi romani ed euro moderni, sulla consistenza dei salari antichi e sul loro reale potere di acquisto nonché sul potere del denaro nell’ambito di una società. come quella romana, estremamente classista e governata dai grandi capitali. Per rispondere alle domande il lavoro è partito da una raccolta di dati relativi alla quantificazione di prezzi, salari, prestiti con i relativi interessi e tasse, rintracciabili tra le fonti classiche, tra i documenti epigrafici e, soprattutto, tra i materiali provenienti dalle ricerche archeologiche nei siti romani, in particolare a Pompei ed Ercolano.
La raccolta, sicuramente incompleta, è già sufficiente per tracciare un quadro che documenti, per esempio, l’evoluzione degli stipendi dei militari, la paga dell’insegnante, la parcella degli avvocati, ecc. ma anche per individuare il quantitativo minimo di denaro necessario ogni giorno per tirare a campare, senza morire di fame. Una parte finale analizza gli usi della moneta in ambito cultuale, dalle offerte di moneta nei santuari, ai riti di fondazione, al pagamento del pedaggio per l’attraversamento di un ponte, all’obolo di Caronte per pagare il traghetto per l’Aldilà al nocchiero infernale.
Stateri in elettro della Lidia e della Ionia (ca. 610 – 550 a.C.) e monete in argento di Corinto e di Egina (ca. 580-500 a.C.)
La nostra abitudine ad un uso capillare della moneta in tutti gli atti della vita quotidiana ha certamente condizionato lo studio sui reali motivi che furono alla base della nascita (o “invenzione”, come la definisce Aristotele) della moneta nel mondo antico, della sua diffusione e del suo uso all’interno della società. Le società antiche avevano certamente sviluppato una fitta rete di scambi commerciali già prima della comparsa della moneta, ed anche successivamente ricorrendo a forme di baratto, scambio di prestazioni, pratiche del dono, di cui la letteratura antica ci offre numerose testimonianze.
Le città-stato greche commerciavano in tutto il Mediterraneo ma la loro produzione di moneta, che ebbe inizio non prima dei primi decenni del VI secolo a.C., con qualche precedente episodio nelle colonie greche delle coste di Asia Minore, è composta essenzialmente da tagli alti, di elevato valore intrinseco, valore confermato dall’uso di metalli rari, e dunque preziosi, quale l’elettro (lega naturale e artificiale di oro e argento) e soprattutto l’argento a pieno titolo. Scarsi erano i tagli inferiori, gli spiccioli, certamente più adatti per un commercio al minuto. Ma la vera moneta spicciola sarà, nei confronti dell’argento, quella di bronzo, di minor valore intrinseco, che farà la sua prima comparsa nelle colonie greche della Sicilia non prima della metà del V secolo a.C., diffondendosi ben presto in Grecia e nel resto del Mediterraneo, in quelle città che avevano coniato fino ad ora esclusivamente monete in argento.
Akragas (Agrigento): oncia fusa in bronzo con testa di aquila e chele di granchio (metà V secolo a.C.) e trias in bronzo coniato di Himera con testa di Gorgone (ca. 430 a.C.)
Mentre in Sicilia compare la prima moneta divisionale in bronzo, tra le città etrusche ed italiche solamente Populonia, e forse anche Vulci, emettono, alla metà del V secolo a.C., alcune rare serie di argento note in poche decine di esemplari e, dunque, prodotte già in antico in quantitativi limitati per un uso ancora limitato.
Ancora per il V secolo e parte del secolo successivo dobbiamo presupporre che nessun altro centro etrusco ed italico sia interessato alla produzione monetaria, a conferma dell’ipotesi per cui in questa fase cronologica l’economia non era affatto gestita in termini monetari e l’attività di produzione di moneta non era certo ai primi posti delle priorità di una città. La stessa Roma non ha in questi anni una propria moneta anche se non possiamo escludere che circolassero nel territorio romano monete straniere, accettate più per il loro contenuto di metallo che per un potere di acquisto riconosciuto.
Eppure la dinastia etrusca dei re (secondo la tradizione, Tarquinio Prisco, Servio Tullio e Tarquinio il Superbo) aveva certamente favorito l’inserimento di Roma nella rete commerciale delle principali città italiche in una posizione d’indiscussa egemonia bene espressa attraverso la realizzazione di importanti opere pubbliche: dalla costruzione della Cloaca Massima alla prima pavimentazione della piazza del Foro, alla costruzione della più antica cinta muraria. La tradizione letteraria collega proprio Servio Tullio con la produzione di un tipo particolare di lingotto in bronzo, con il tipo del “ramo secco”, e la documentazione archeologica inquadra la circolazione di questi lingotti nello stesso periodo cronologico.
Lingotto (“aes signatum”) con il tipo del Pegaso e legenda ROMANOM (“dei Romani”)
Ma occorre ricordare, per correttezza, che sia il dato letterario (Plinio, “Nat. Hist.” XXXIII, 13, 43) che quello archeologico (ritrovamento dal santuario di Demetra Thesmophoros a Bitalemi in provincia di Gela) sono stati messi anche recentemente in discussione dagli studiosi.
Altri tipologie di lingotti in bronzo sono noti e riferibili anche ad epoche in cui era sicuramente già iniziata la produzione di moneta vera e propria a Roma. Tra questi il lingotto che riproduce un elefante, animale noto ai Romani non prima della venuta di Pirro in Italia e il lingotto con legenda ROMANOM (“dei Romani”) che testimonia l’intervento dello Stato nel controllo del commercio dei metalli.
Dunque, forme di baratto e commercio dei metalli senza uso di moneta vera e propria, non ancora “inventata” dai Romani: questo è il quadro che si può correttamente ricostruire per la città di Roma dopo la cacciata dei re etruschi (data tradizionale al 509 a.C.) e durante il primo secolo della Repubblica. Nella migliore delle proposte avanzate, le prime monete della zecca di Roma sono state prodotte non prima degli ultimi decenni del IV secolo a.C. E le prime monete prodotte dai Romani sono visibilmente e, per ovvii motivi storici, articolate sui due diversi e distinti filoni.
Da un lato vennero realizzate con la tecnica della fusione (più legata alla tradizionale produzione di lingotti) serie in bronzo composte da diversi valori, legati tra loro da precisi rapporti ponderali in un sistema duodecimale. L’unità base, la libbra, oscillante dai 272 ai 327 grammi circa, era suddivisa in dodici once con i diversi nominali asse, semisse, triente, quadrante, sestante ed oncia ma anche i multipli dell’asse, dupondio, tressis, quincussis e decussis, e i sottomultipli dell’oncia, semoncia e quartoncia.
Dupondio (doppio asse) della serie fusa in bronzo della “della ruota”
Dall’altro lato, più coerentemente con la tradizione greca della città della Magna Grecia e della Sicilia, vennero prodotte, con la tecnica della coniazione, monete in argento (didracme e dracme) e in bronzo (doppia litra, litra e suoi sottomultipli la metà e il quarto) con pesi assai più contenuti ed allineati ai sistemi ponderali di tradizione greca, cui si ispiravano visibilmente anche le tipologie usate nelle due facce.
Esempi di didracme in argento con legenda ROMANO (“dei Romani”) oppure ROMA
In questa prima fase nasce il denario in argento, coniato, con il valore iniziale di dieci assi di bronzo, assieme ai suoi sottomultipli, il quinario e il sesterzio, rispettivamente la metà e il quarto. Il denario sarà la moneta simbolo dell’autorità romana, moneta ‘internazionale’, uno dei tanti antenati dell’euro, accettato in tutto il bacino del Mediterraneo come unità di conto, fino al regno di Diocleziano.
Il denario romano con i tipi tradizionali della testa di Roma e dei Dioscuri al galoppo, il segno di valore X (dieci) e la legenda ROMA
Ma in questa fase di vita della moneta romana non dobbiamo ancora credere che la produzione fosse talmente ampia da essere diffusa capillarmente in tutte le transazioni commerciali, in tutti gli atti della vita quotidiana e in tutti i territori sottoposti al dominio romano. Il ridotto quantitativo di esemplari giunto fino a noi, pur nella consapevolezza che quanto pervenutoci rappresenta una minima parte di quanto prodotto, avvalora l’ipotesi di un uso ancora limitato della moneta.
Un consistente aumento della produzione monetaria della zecca romana (che in questi anni è ancora alloggiata presso i locali del tempio di Giunone Moneta in Campidoglio) coincide con l’allargamento dei confini dei domini romani verso Oriente e verso Occidente con la creazione delle nuove provincie di Macedonia (146 a.C.), di Asia (127 a.C.), di Spagna (197 a.C.) e di Africa (146 a.C.).
La presenza di botteghe di cambiavalute che, nel 211 a.C., secondo l’affermazione di Livio (XXVI, 11, 7), circondavano l’intero Foro è la testimonianza di una sempre maggiore diffusione della moneta. La sostituzione delle botteghe dei cambiavalute a quelle più tradizionali dei macellai e dei rivenditori di generi di prima necessità è ricordata con soddisfazione nella convinzione, secondo la testimonianza dello storico Varrone (“De vita pop. Rom”., l. II, “Ap. Non.” 853, 17L), che tale cambiamento avrebbe giovato alla accresciuta dignità del Foro, la piazza simbolo del potere politico della città.
Il banco di lavoro di un “argentarius” (da un sarcofago) e la sua ricostruzione
Tra gli operatori finanziari si distinguono, senza per questo credere a precisi limiti di competenza che non dovevano esistere: a) i “nummularii”, abilitati ad effettuare il cambio e il saggio delle monete verificando la bontà del metallo impiegato e l’esattezza del peso. Conosciamo diversi nomi di “nummularii” grazie al rinvenimento delle tessere in osso o in avorio (lunghe dai 3 ai 6 centimetri) usate per sigillare i sacchetti all’interno dei quali venivano conservate le monete saggiate ma anche le monete depositate dai privati al solo scopo di conservazione, con o senza facoltà di utilizzo da parte del banchiere, distinguendo, in tal modo, il deposito infruttifero dal deposito con interessi a vantaggio del privato proprietario del gruzzolo; b) i “coautore” che invece dovevano occuparsi principalmente della riscossione di somme di denaro per conto dei propri clienti, dietro corresponsione di una commissione fissa e che, forse, erano anche preposti alle vendite all’asta (“coactores argentarii”); c) gli “argentarii” che dovevano svolgere attività più rispondenti a quella di banchieri pronti a finanziare con prestiti un’attività commerciale o altro investimento, dietro il pagamento di interessi, ma che erano anche disposti a custodire somme di denaro in modo gratuito, ovvero infruttifero per il proprietario.
Banca e banchiere non sono nomi di origine latina ma germanica, nati nel medioevo, da cui deriva il termine “bancarotta”ad indicare il fallimento. In greco ancora oggi la banca è detta “trapeza”, il cui primo significato è tavola o bancone, su cui venivano effettuate le operazioni. A Roma c’è ancora un arco trionfale che gli stessi “argentarii” avevano innalzato nel Foro Boario in onore dell’imperatore Settimio Severo, ora adiacente la chiesa di San Giorgio al Velabro.
L’Arco degli Argentarii nel Foro Boario a Roma e la stele funeraria dell’”argentarius” L. Calpurnius Daphne
Un “argentarius” è L. Calpurnius Daphne che aveva il suo ufficio presso o all’interno del Macellum Magnum e, come sembra di capire dalla scena raffigurata sulla sua ara funeraria, interveniva nelle compravendite all’ingrosso di generi alimentari offrendo le garanzie per il pagamento e dunque il necessario prestito.
Un altro banchiere famoso è L. Caecilius Iucundus che operava a Pompei all’interno della cui abitazione, identificata durante gli scavi, è stato rinvenuto l’archivio costituito da tavolette di legno originariamente ricoperte di cera sulle quali erano annotati contratti e documenti relativi a vendite di cui lo stesso Iucundus era garante. Dall’archivio abbiamo soprattutto dittici e trittici di legno di abete, oggi carbonizzato per effetto dell’eruzione, di un colore bruno-antracite, con dimensioni che variano da 12-15 cm di lunghezza a 10-12 di larghezza. La lettura è ovviamente possibile lì dove lo stilo ha intaccato il legno, lasciandoci testimonianza di testi per un totale di 153 documenti diversi.