(di Francesco Sanvitale) | Quando Winston Churchill definì l’Ungheria in uno dei suoi leggendari aforismi – “Un regno senza mare e senza re, governato da un reggente ammiraglio senza flotta” – più che mostrarsi irriverente, ebbe il pregio di descrivere in due pennellate verbali quella nazione umiliata dal Trattato di Trianon e ridotta a meno della metà del proprio territorio, nella sua travagliata esistenza istituzionale dopo la Grande Guerra. Infatti all’indomani del conflitto mondiale, l’Ungheria unita all’Austria e alla Germania nella sconfitta, pagò un prezzo altissimo a cominciare proprio dall’incertezza istituzionale in cui era caduta con l’abolizione della monarchia austroungarica. Miklós Horthy nominato reggente il 1° marzo 1920, dopo la fallita esperienza dei soviet di Béla Kun e il ripristino della monarchia, ebbe l’indiscusso merito di aver salvato il suo Paese da un regime eterodiretto da Mosca e di averne preservato la stessa esistenza, restando fedele alla forma di monarchia costituzionale. Suo malgrado, fu costretto a rinunciare di porre sul trono un legittimo sovrano asburgico per l’aperta ostilità di Cecoslovacchia, Serbia e Romania (cui molti territori alla fine conflitto appartenevano al disgregato Impero di Vienna) appoggiate da Francia e Inghilterra. L’ammiraglio Horthy si adoperò costantemente per rompere l’isolamento cui sembrava destinato il suo Paese, dopo le dure condizioni del Trattato del Trianon.
L’insegna dell’Ordine di Vitéz (source: author)
Egli promosse una politica estera autonoma avvicinandosi all’Italia fascista e alla Germania di Hitler, e cercò di ricomporre con una paziente azione diplomatica il territorio nazionale uscito ridotto dei due terzi dalla sconfitta. Sul fronte interno accentrò molti poteri nelle sue mani, ma non distrusse l’impianto costituzionale dello Stato, tentando anche alcune timide riforme come quella agraria, che comunque lasciava l’aristocrazia quale perno della cultura e dell’economia rurale. Egli cercò in ogni modo di tenere da buon marinaio “dritta la barra” della dignità nazionale e di un diffuso senso dello stato, che contribuisse anche nei momenti più bui a mantenere saldo il rispetto per la storia e la cultura di una nazione di secolare tradizione e celebre per l’orgoglio verso il proprio retaggio. In tal senso va vista la creazione nel 1920 dell’Ordine dei Vitéz, una distinzione onorifica unica per la sua originalità, ancora oggi in vita in Ungheria e all’estero, tra gli ungheresi espatriati e tra personalità straniere che si sono distinte nel rispetto e nel sostegno della cultura magiara. Il termine vitéz, che l’insignito antepone al cognome (va ricordato che nell’uso ungherese questo precede sempre il nome) è traducibile con molti vocaboli diversi, ma di contiguo significato, se non sinonimi. L’Ordine infatti non concede il titolo di cavaliere, ma quello di vitéz, che può essere tradotto con sostantivi quali: il guerriero, il combattente, il campione, il cavaliere, l’eroe; e come aggettivo: il valoroso, il prode, il coraggioso.