(di Leonardo Mezzaroba) | Ricorre quest’anno il 150° anniversario del passaggio di Venezia e del Veneto all’Italia. Si tratta di una commemorazione doverosa e importante dato che si riferisce a una tappa molto significativa e sofferta della nostra storia risorgimentale, non solo perché riguardò un territorio piuttosto ampio (non bisogna dimenticare che furono coinvolte anche Mantova e vaste zone del Friuli), quanto perché comportò la conclusione della prima delle due gravi “questioni” rimaste irrisolte al momento della proclamazione del Regno d’Italia (per l’altra, quella romana, si sarebbero dovuti attendere altri quattro anni). In questo articolo verranno ripercorse, attraverso testimonianze medaglistiche, le principali vicende che portarono alla soluzione della questione veneta, dagli scontri militari, alle complesse trattative diplomatiche, al plebiscito popolare, alla proclamazione dell’annessione, alle manifestazioni di giubilo che accompagnarono l’ingresso di Venezia nel Regno d’Italia, fino alle iniziative legate al cinquantenario e al centenario.
Le prime speranze delle popolazioni venete di potersi sottrarre al giogo austriaco erano fiorite al momento della dichiarazione della Seconda Guerra di Indipendenza (il 26 aprile 1859); come è noto però l’11 luglio dello stesso anno il Trattato di Villafranca, concluso con atto unilaterale francese, poneva inaspettatamente fine alla guerra, lasciando interrotta a metà l’opera intrapresa da Cavour, che, indignato, si dimetteva. Per Venezia e il Veneto, tagliati fuori da ogni trattativa, la delusione fu enorme.
A sinistra, A. Oudiné, Napoleone III e Franz Joseph si incontrano a Villafranca, 1859 (AE, Ø mm 73; tratta da R. Mondini, “Spigolando tra medaglie e date (1848 – 1870-71)”, Livorno 1913, p. 221); a destra, di anonimo artista, “Figura femminile che legge il Trattato di Villafranca”, circa 1860 (Venezia, Museo Correr)
Mentre, nei 20 mesi successivi, una serie di consultazioni popolari, al centro nord, e la spedizione garibaldina, al sud, portavano alla proclamazione del Regno d’Italia il 17 marzo 1861, ai Veneti non rimaneva che assistere impotenti o, in molti casi, emigrare in Piemonte (si parla di 4500 patrioti esuli) per arruolarsi nell’esercito e sfuggire alle persecuzioni della polizia. Appariva evidente che la liberazione del Veneto, più che alla volontà impotente delle popolazioni, era ormai legata a una favorevole congiuntura politica internazionale. Dunque altro non rimaneva da fare che attendere e sperare.
A. Appiani jr., “Venezia che spera”, 1861 (Milano, Museo del Risorgimento)
Andarono comunque costituendosi, sin dal dicembre del 1861, dei Comitati di provvedimento per Roma e Venezia, che si trasformarono, nel marzo successivo, nell’Associazione emancipatrice italiana presieduta da Garibaldi. Proprio su costui, instancabile animatore di azioni libertarie, si appuntarono gli occhi dei patrioti romani e veneziani. Sono estremamente eloquenti al riguardo l’iconografia e le iscrizioni di una medaglia anonima, ma promossa nel 1862 dalla Società artistica nazionale, in cui Roma e Venezia, ai piedi di Garibaldi, invocano: “LA STELLA DI MARSALA ANCO PER NOI”.
Le azioni di Garibaldi (a onor del vero più orientate alla “liberazione” di Roma che del Veneto) finirono però per risultare molto indigeste allo stesso governo italiano e culminarono nei drammatici scontri all’Aspromonte (29 agosto 1862) in cui l’Eroe dei due mondi rimase ferito proprio ad opera dei soldati dell’esercito regolare italiano. L’episodio suscitò emozione dentro e fuori l’Italia, come attesta una medaglia commissionata dagli Italiani insediati in Perù a Luigi Seregni, per dimostrare la loro riconoscenza ai medici Augusto Nelaton e Ferdinando Zanetti, che, tra il 20 e il 23 novembre, riuscirono dapprima nel delicatissimo intervento di individuare l’esatta posizione del proiettile (utilizzando una sonda munita di una sfera di porcellana) e poi di estrarlo dal malleolo di Garibaldi. Gli strumenti usati dai due medici sono riprodotti, assieme al bastone di Asclepio, nel rovescio della medaglia.
A sinistra, di anonimo autore, “Roma e Venezia invocano l’aiuto di Garibaldi”, 1862 (MB, Ø mm 51,5; Venezia, Museo Correr); a destra, L. Seregni, “I patrioti italiani del Perù riconoscenti”, 1862 (AE, Ø mm 60)
Questo non significa però che governo e parlamento avessero accantonato le questioni di Roma e di Venezia, solo che la strada “armata” proposta da Garibaldi appariva, allora, assolutamente impercorribile e la stessa via diplomatica era irta di ostacoli. Dunque prima doveva essere usata tutta la prudenza possibile. Il concetto è efficacemente ribadito in una medaglia di grande modulo, realizzata, sempre nel 1862, dai fiorentini Francesco e Giovanni Vagnetti, in cui si fa riferimento alla necessità di una “concordia d’armi e di senno”.
La discussione su come procedere fu molto accesa e alla fine apparve evidente che se lo Stato pontificio era per il momento intoccabile a causa della ostinata protezione offerta da Napoleone III, era più opportuno volgersi a risolvere la questione veneta. In effetti, il 18 novembre 1865 Vittorio Emanuele II inaugurava la prima sessione della IX legislatura con un discorso in cui, sottolineando i progressi compiuti dallo Stato italiano in politica interna ed estera e indicando il percorso che ancora si doveva compiere, esortava gli Italiani a prepararsi a future eroiche imprese per il completamento del processo unitario: “Se pel compimento delle sorti d’Italia sorger dovessero nuovi cimenti, son certo che intorno a me si stringerebbero i prodi miei figli.” La frase destò notevole emozione tra i patrioti e fu immortalata dall’incisore Luigi Gori (1838 – ca. 1921) nel bronzo di una medaglia, a presagio di qualcosa che stava ormai per compiersi.
A sinistra, F.e G. Vagnetti, “Vittorio Emanuele II conferma il proposito di portare a compimento l’unificazione”, 1862 (AE, Ø mm 70); a destra, L. Gori, “Vittorio Emanuele II annuncia nuovi possibili ‘cimenti'”, 1865 (AE Ø mm 50; tratta da R. Mondini, “Spigolando…”, op. cit., p. 221)
Il fatto è che, proprio in quei giorni, Prussia e Italia avevano intavolato trattative riservate per un’alleanza che potesse favorire il processo di unificazione tedesca, da un lato, e di completamento territoriale italiano, dall’altro. L’8 aprile 1866, il cancelliere prussiano Otto von Bismarck e il primo ministro italiano Alfonso La Marmora sottoscrivevano un accordo in funzione di una guerra all’Austria. L’Italia (alla quale era stato promesso il Veneto) avrebbe dovuto impegnare l’Austria sul fronte terrestre meridionale, inoltre, sul piano navale, avrebbe dovuto minacciare le coste dalmate per distogliere ulteriori forze del nemico. Da parte sua l’Austria, dopo la dichiarazione di guerra da parte prussiana (17 giugno 1866), si dichiarò disponibile alla cessione del Veneto all’Italia, anche solo in cambio della neutralità di quest’ultima.
La questione del Veneto dunque sarebbe potuta esser risolta in modo indolore, ma l’Italia ormai era troppo coinvolta: forse sognava di poter ottenere, con una brillante vittoria, anche il Trentino e tutto il Friuli, oppure, semplicemente, voleva smentire sul campo quanti malignavano sul fatto che gran parte dei territori confluiti nel Regno d’Italia erano stati il frutto di “doni” (da parte francese o dei garibaldini). Si arrivò così all’infelice battaglia di Custoza (24 giugno 1866) che provocò grande delusione tra la popolazione e imbarazzo negli alti comandi. Solo il celebre episodio, noto come “Quadrato di Villafranca”, attenuò in parte l’amarezza per la sconfitta. L’eroismo del principe Umberto di Savoia, ventiduenne figlio di Vittorio Emanuele, e della sua Brigata Granatieri di Lombardia, fu rappresentato in vari dipinti risorgimentali (si pensi a quello di Giovanni Fattori) e venne celebrato anche da una medaglia del modenese Gaetano Calvi.
G. Calvi, “Umberto di Savoia e il ‘Quadrato di Villafranca’”, 1866 (AE, Ø mm 58)
Al contrario, il 3 luglio, i Prussiani ottenevano una grande e decisiva vittoria sull’Austria a Sadowa. Una nuova proposta di cessione del Veneto, dall’Austria all’Italia, venne rifiutata dal nuovo primo ministro Bettino Ricasoli. A suo parere occorreva una vittoria che spazzasse via i malumori dell’opinione pubblica e l’irritazione della Prussia per l’inattività dell’esercito italiano. Tale vittoria poteva venire solo dalla marina.
Si giunse così, il 20 luglio, alla battaglia di Lissa; uno scontro sul quale converrà soffermarsi per le implicanze veneziane che, paradossalmente, lo caratterizzarono. La flotta austriaca infatti era formata da “equipaggi e stati maggiori [che] appartenevano tutti, o quasi tutti, all’area etnica dell’antica Repubblica di San Marco, della quale avevano assorbito, tutti, anche coloro che provenivano da altre regioni dell’Impero, le tradizioni nautiche e militari.” (A. Zorzi, “Venezia austriaca”, Roma-Bari 1985, p. 227). In realtà però, anche nella flotta “italiana” (costituita nel 1861 dalla fusione del naviglio del Regno di Sardegna con quello dello sconfitto Regno delle due Sicilie) vi erano numerosi veneziani, in gran parte esuli e patrioti, tanto che “per alcuni aspetti la battaglia di Lissa è stata una lotta fratricida: c’erano veneziani a bordo di entrambe le flotte” (R. Coaloa, “Mediterraneo imperiale. Breve storia della marina da guerra degli Asburgo 1866-1918”, Udine 2013, p. 10).
C. Volanakis, “La battaglia di Lissa”, 1869 (Budapest, Museo di Belle Arti)
Ma per certi versi, veneziano era anche l’ammiraglio della flotta austriaca, il trentottenne Wilhelm von Tegetthoff (1827-1871), formatosi nel collegio dei cadetti di marina di Venezia e uso, come gli altri ufficiali asburgici, a impartire gli ordini in dialetto veneziano a bordo delle sue navi. Benché la flotta italiana, comandata dall’ammiraglio Carlo Pellion di Persano fosse nettamente superiore, l’esito dello scontro volse clamorosamente a favore di quella austriaca. Se sembra attribuibile a una leggenda, il fatto che, mentre la corazzata “Re d’Italia” affondava, i marinai dell’ammiraglia austriaca abbiano gridato “Viva San Marco!”, è invece un dato di fatto che il comandante della Erzherzog Ferdinand Max incitò il timoniere a speronare la “Re d’Italia” gridando in dialetto veneto: “Daghe dentro che la ciapemo!” (“Forza che la prendiamo!”), del resto il timoniere, Vincenzo Vianello, proveniva da Pellestrina, un’isola del litorale veneziano; fu decorato con medaglia d’oro dall’imperatore.
Se determinante fu la strategia di Tegetthoff, che si sforzò di accorciare, nel minor tempo possibile, le distanze per trasformare lo scontro in una serie di speronamenti, certamente pesanti responsabilità pesarono su Persano e sugli altri ufficiali italiani, tanto che, al termine della battaglia, Tegetthoff pronunciò la celebre frase: “navi di legno comandate da teste di ferro hanno sconfitto navi di ferro comandate da teste di legno”.
Dunque, mentre l’ammiraglio Tegetthoff otteneva il plauso e la gratitudine dall’impero asburgico, Persano veniva processato, nel gennaio 1867, e radiato dalla marina. Tale situazione è ben rappresentata in medaglia: per Tegetthoff fu commissionata all’incisore viennese Joseph Tautenhayn (1837-1911) una medaglia di grande modulo (realizzata in argento e in bronzo presso la zecca di Vienna) in cui veniva commemorata, oltre alla vittoria di Lissa, anche quella ottenuta in precedenza (9 maggio 1864), contro l’ammiraglio danese Suenson, al largo di Helgoland.
Su Persano invece calò il velo della “damnatio memoriae”. Solo gli ufficiali italiani che trovarono la morte nell’infelice battaglia, ottennero di essere onorevolmente ricordati in medaglia: è il caso, ad esempio, del comandante Alfredo Luigi Cappellini, che perse la vita nell’esplosione della sua nave, la “Palestro”, o di Emilio Faà di Bruno, trascinato nel gorgo del “Re d’Italia”, e per il quale si diffuse la leggenda che si fosse suicidato con un colpo di pistola nel momento in cui la sua nave affondava. A costoro va aggiunto il comandante della corazzata “Re di Portogallo” che costrinse alla ritirata la “Kaiser”. Tutte e tre le medaglie appena citate furono opera del lucchese Alfredo Pieroni (1832-1875).
A sinistra, J. Tautenhayn, “Celebrazione dell’ammiraglio Wilhelm Von Tegetthoff, vincitore a Lissa”, circa 1870 (AR g 86, Ø mm 62,5, Collezione Voltolina); a destra, A. Pieroni, “A Emilio Faà di Bruno perito nell’affondamento del ‘Re d’Italia’”, 1866 (AE, Ø mm 50; tratta da R. Mondini, “Spigolando…”, op. cit., p. 363)
Quanto all’esito della guerra, il 22 luglio Prussia e Austria avevano attuato, con la mediazione di Napoleone III, una tregua di cinque giorni, cui dovette aderire, a partire dal 25 luglio, anche l’Italia, proprio mentre Garibaldi (almeno lui!) otteneva alcuni successi militari di un certo rilievo (ad esempio a Bezzecca il 21 luglio) che lasciavano sperare che, all’annessione del Veneto, potesse aggiungersi anche quella del Trentino. Nei primi giorni di agosto la diplomazia si mise al lavoro per concordare un armistizio: l’Austria subordinò la firma di un qualsiasi trattato al ritiro delle truppe italiane dal Trentino. Il 9 agosto, con un asettico scambio di dispacci telegrafici, il generale La Marmora intimava a Garibaldi di “ripassare le frontiere del Tirolo”; a sua volta Garibaldi rispondeva laconicamente “Obbedisco”.
A sinistra, A. Pieroni, “Ad Alfredo Cappellini perito nell’esplosione della ‘Palestro'”, 1866 (AE, Ø mm 50; tratta da R. Mondini, “Spigolando…”, op. cit., p. 364); a destra, A. Pieroni, “Ad Augusto Riboty vincitore nello scontro con il vascello ‘Kaiser'”, 1866 (AE, Ø mm 50; tratta da R. Mondini, “Spigolando…”, op. cit., p. 365)
In questo modo, il 12 agosto, si giungeva all’armistizio di Cormons (presso Gorizia) in base al quale Venezia e le fortezze del Quadrilatero sarebbero state consegnate a un commissario francese (il generale Louis Leboeuf de Montgermont) che le avrebbe poi rimesse alle autorità venete, previo “il consenso delle popolazioni”. La pace firmata a Praga tra la Prussia e l’Austria il 23 agosto confermò la cessione del Veneto all’Italia attraverso la mediazione francese. Infine, tale clausola fu approvata nella pace tra Italia e Austria ratificata a Vienna il 3 ottobre 1866; il trattato prevedeva inoltre il riconoscimento, da parte dell’Austria, dello Stato unitario italiano e stabiliva relazioni diplomatiche tra le due potenze.
A sinistra, di anonimo artista, “La pace di Vienna e la restituzione di Venezia all’Italia”, 1866 (AE, Ø mm 25); a destra, B. Andrieu, N. G. A. Brenet, “Venise rendue a l’Italie”, 1805 (AE, Ø mm 40; Collezione Voltolina)
Proprio alla pace di Vienna si riferisce una anonima medaglia che, molto significativamente, propone, al dritto, il busto del sovrano, Vittorio Emanuele II, e al rovescio il Leone di San Marco stante su di un basamento recante appunto la data 3 ottobre 1866. La legenda del rovescio (VENEZIA RESTITUITA ALL’ITALIA) riecheggia in modo singolare l’iscrizione presente su una pregevole medaglia (opera di Bertrand Andrieu e Nicolas Guy Antoine Brenet) emessa 61 anni prima, quando, a seguito della Pace di Presburgo, Venezia veniva restituita all’Italia (VENISE RENDUE A L’ITALIE). In quel caso, a campeggiare nel dritto vi era la testa dell’imperatore Napoleone, mentre nel rovescio, per la prima volta in ambito medaglistico, si assisteva alla rappresentazione di uno dei massimi simboli della venezianità: il Ponte di Rialto.